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Costume e SocietàLetteratura

Il matronimico: dalle antiche civiltà alla sentenza della Corte Costituzionale

Pari opportunità e avvocatura: appunti di viaggio


Edil Merici

Di Rocco Lombardo

La scorsa settimana abbiamo approcciato l’argomento della Parità di Genere in una chiave di lettura storica, per evidenziare come le tematiche di genere abbiano sempre rivestito una notevole importanza sociologica e giuridica, analizzando alcuni aspetti di una lunghissima e radicata teoria secondo la quale l’organizzazione famigliare e sociale sarebbe stata dominata un tempo dalle donne e come il patriarcato sia stato preceduto dal matriarcato, anche se sarebbe più corretto parlare di matrilinearità.
Non abbiamo consultato oracoli, ma aver anticipato di poche ore le tematiche legate al matronimico, ancorché in chiave esegetica e storica, rivenienti dalla pronuncia epocale della Corte Costituzionale del 27 aprile 2022, ci induce a concludere l’approfondimento storico sul matronimico in compagnia dell’Avvocato Adriano Scardaccione (Tesoriere del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Roma e Responsabile del Dipartimento Nazionale Diritti Umani del Movimento Forense).
In attesta della parte motiva della pronuncia, la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre – con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi – e nel demandare al legislatore il compito di regolare tutti gli aspetti connessi alla decisione, ha qualificato come “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre”, precisando che “nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale”.
Avvocato Scardaccione, come possiamo inquadrare, pertanto, dal punto di vista delle fonti normative tale pronuncia?
È una decisione assunta sul presupposto che le attuali regole violano gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Il diritto al nome rappresenta un diritto fondamentale della persona ed è collocato all’interno dei diritti della personalità e, più in generale, nella problematica della libertà individuale e degli strumenti giuridici di tutela della persona: è il segno che identifica ogni persona e che permette di riferire a essa atti e vicende personali, anche qualora fosse assente. L’ordinamento giuridico attribuisce le regole secondo cui ogni individuo, sin dalla nascita, oltre ad acquisire la capacità giuridica insita nell’art. 1 del Codice Civile, deve essere identificato attraverso un nome, quale “strumento identificativo della persona” che, in quanto tale, “costituisce parte essenziale e irrinunciabile della personalità quale primo e più immediato elemento dell’identità personale”. Il diritto al nome, quale segno distintivo dell’identità personale e della dignità della persona, è un Diritto Umano. Come precisato nel Preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Tralasciando le implicazioni giuridico-pratiche di gestione dell’anagrafe, i risvolti politici, etici e sociali che ne derivano, al di là dell’importanza storica di questa pronuncia, risulta sempre più evidente la rilevanza del diritto antidiscriminatorio, non solo di carattere nazionale, ma anche sovrannazionale, stanti le numerose pronunce della Corte Europea dei Diritti Umani sul tema del best interests of the child, soprattutto con riferimento all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in considerazione del rispetto del principio della vita famigliare.
Per comprendere appieno la portata rivoluzionaria del decisum della Consulta, come possiamo offrire una chiave di lettura comparativa che ci consenta di raffrontare il diritto al nome nell’attuale contesto giuridico e sociale con quello delle antiche culle della civiltà?
La disparità di trattamento rispetto all’uomo che da sempre è stata riservata alla donna va associata a un discorso molto più ampio di diseguaglianze di genere, che parte già dall’antica Roma. La donna, nella società romana, era gravata da una serie di limitazioni della capacità giuridica e di agire ed era destinata obbligatoriamente a svolgere funzioni prettamente legate alla famiglia. Prima di sposarsi era totalmente assoggettata al pater familias che, in tempi assai antichi, aveva su di lei il diritto di vita e di morte e, una volta sposata, lasciava la famiglia di origine per entrare a far parte della nuova con il marito e un nuovo pater familias. Nei primi secoli della sua storia, il diritto romano rifletteva le consuetudini di una società che poneva l’uomo come capo indiscusso, era il padrone di casa e della familia. Soltanto l’uomo poteva esercitare i suoi diritti politici. Le donne totalmente libere, in pratica, non esistevano. Queste, una volta raggiunta la pubertà, divenivano sui iuris, ma sottoposte alla manus (un potere più attenuato rispetto alla potestas) del marito se sposate con iustae nuptiae, oppure alla manus del pater (o dell’avo, nel caso in cui il pater fosse alieni iuris); in assenza del padre e nel caso in cui non fossero sposate, erano sottoposte alla manus di un fratello o un parente prossimo. In pratica, le donne romane vivono sempre sotto la manus del marito o del padre o, in assenza di questi, sotto tutela. Tuttavia la mater familias aveva una seppur limitata capacità giuridica nel mondo del diritto. Poteva, infatti, possedere beni anche se, in mancanza di marito o parente maschio prossimo, doveva essere sottoposta alla tutela. Quindi soggiaceva costantemente alla manus che, dal padre, una volta sposata, passava al marito, anche senza il consenso di lei. Tutte le limitazioni alla capacità giuridica della donna venivano spiegate dai giuristi latini facendo ricorso a una serie di caratteristiche negative quali l’ignoranza della legge, l’inferiorità mentale, la debolezza d’animo, ragion per cui nessuna donna era in grado di agire correttamente per porre in essere atti nel mondo del diritto a lei favorevoli. Nel periodo arcaico la donna non poteva adottare; era quindi messa al pari degli eunuchi o degli impotenti. Con riferimento al diritto all’identità, la donna romana non aveva diritto a un nome proprio e, nel caso in cui lo avesse avuto, doveva essere conosciuto solo dai parenti più stretti e non doveva mai essere pronunciato in pubblico. I maschi avevano tre nomi – il praenomen (che equivaleva al nostro nome di battesimo e veniva imposto dai genitori al bambino il giorno della nascita), il nomen (ovvero era il nome gentilizio e indicava i componenti di una gens, cioè i discendenti dagli stessi antenati) e il cognomen (un soprannome aggiunto al nomen gentilizio che acquisì valore ereditario e servì a distinguere i vari rami di una medesima gens). Le femmine, che erano considerate non come individui, ma soltanto come parte di un determinato nucleo famigliare, ne avevano soltanto uno e, tra l’altro, era quello della gens a cui appartenevano, usato al femminile. Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens, portavano il nome generico di Prima, Secunda e via discorrendo. Per distinguere madre e figlia si usavano gli aggettivi Maior o Minor.
La scorsa settimana abbiamo focalizzato l’attenzione sull’importanza peculiare che rivestiva il ruolo sociale e famigliare della donna in alcune colonie della Magna Grecia come Locri Epizephiri, Kaulon e Taranto, anche in contrasto, per certi versi, con quanto avveniva nella madre patria, e come tale concezione si armonizzava con la restante parte del Mondo Greco e, ancora precedentemente, con la civiltà egizia, oppure con la successiva civiltà etrusca.Anche nella Grecia Antica la donna, per la logica della società di allora, faceva parte delle ricchezze poiché era colei che provvedeva alla riproduzione. Le donne erano giuridicamente libere, ma di certo non godevano di diritti politici. La loro esistenza si svolgeva nell’oikos, cioè nella casa famigliare, dove trovava sede il gineceo. La casa era fondata sul matrimonio legittimo e l’eredità era trasmessa solo agli eredi legittimi: ai figli illegittimi, infatti, era riservata solo la quota del bastardo e non godevano di nessuno statuto. La casa, nel suo complesso, era determinante per la condizione sociale dei cittadini liberi: infatti per avere un nome, bisognava essere riconosciuti dal padre, dalla casa di appartenenza. I non liberi, nelle società omeriche, non avevano una casa, non avevano un nome, né un padre. È evidente la differenza con le donne egizie che, invece, godevano della stessa posizione giuridica dell’uomo. Dopo il matrimonio la donna egizia manteneva il proprio cognome, aveva diritto, dopo la morte, a una tomba tutta sua – al pari dell’uomo – ed era giuridicamente protetta dagli abusi e dai maltrattamenti. Seppur esisteva una preponderanza maschile nel ricoprire quasi tutte le cariche pubbliche, vi sono state donne – soprattutto durante l’Antico Regno, ove la donna raggiunse l’apice nella vita istituzionale e pubblica – che sono passate alla storia: la sovrana Nefertiti, varie regine di nome Cleopatra, sacerdotesse e numerose divinità femminili. Ancor più evidente la differenza con le donne etrusche, che potevano essere identificate anche col cognome della madre. Difatti, la donna non solo aveva pieno diritto al nome completo, ma poteva trasmettere il proprio cognome ai figli, soprattutto nelle classi più elevate della società. Nel sistema onomastico etrusco i nomi femminili sono attestati frequentemente, sia attraverso formule bimembri (praenomen, il nome personale e nomen gentilizio, che oggi corrisponde al nostro cognome) che, con l’aggiunta di altri elementi come il gamonimico (il gentilizio del marito, espresso di frequente nelle iscrizioni di età ellenistica) oppure il patronimico (prenome del padre), spesso abbreviato in età recente. Ciò evidenziava l’individualità della donna all’interno del gruppo famigliare. In età recente anche il prenome femminile veniva abbreviato. Nelle iscrizioni maschili era invece attestato frequentemente il metronimico, ovvero il gentilizio della madre, apposto in fondo all’iscrizione ed espresso al caso genitivo II (terminante in -al). Si afferma, pertanto, l’uso, oltre al patronimico, anche il matronimico. È innegabile che la donna etrusca godesse di uno status per certi versi privilegiato rispetto alla condizione femminile di parte dell’antica Grecia e a quella della società romana a loro contemporanea.
A conclusione, e alla luce della ricostruzione storica, come possiamo inquadrare la Sentenza della Consulta?
La pronuncia si inserisce in un percorso lungo e tortuoso, frutto dell’evoluzione sociale e culturale, ove la Corte Costituzionale, con pronunce che si sono susseguite nel tempo ha, in un primo tempo, provveduto a limitare e, oggi, a rimuovere definitivamente il portato discriminatorio di tutte le disposizioni che attribuiscono automaticamente il cognome del padre, qualificandole come norme che discriminano le donne e le madri a favore dei padri, in spregio non solo al principio di parità e pari opportunità di cui agli art. 3, c. 1 e 2 e 51 della Costituzione, ma anche a quello di parità fra genitori, sancita dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 e, più di recente, dalla novella del 2013 che, rivisitando la materia della filiazione, ha parificato tutti gli status connessi alla filiazione. L’odierna pronuncia, oltre a scardinare un atavico retaggio di matrice culturale, enfatizza e valorizza sia il principio di eguaglianza dei genitori, che il diritto fondamentale all’identità e ai superiori interessi dei figli, che devono poter ricevere i segni distintivi e identificativi di entrambi i genitori a testimonianza del rapporto che li lega ai propri ascendenti diretti, quale esigenza personale e sociale riconducibile alla tutela della persona e al rispetto della sua personalità sancito dall’art. 2 della Costituzione.Ringraziamo l’Avvocato Adriano Scardaccione per il contributo e vi diamo appuntamento alla prossima settimana.

Foto: tempi.it


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