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Costume e Società

Le pari opportunità tra mito, storia e diritto

Pari opportunità e avvocatura: appunti di viaggio


Edil Merici

Di Rocco Lombardo

Affrontare l’argomento della Parità di Genere in una chiave di lettura storica potrebbe risultare forse anacronistico, ma così non è.
Le tematiche di genere rivestono una notevole importanza storica, sociologica e giuridica, basti pensare che, a partire dalla seconda metà dell’800, viene periodicamente riproposta un’ipotesi storiografica secondo la quale, all’origine dei gruppi patriarcali, sarebbe possibile intravedere una radicata teoria secondo la quale l’organizzazione famigliare e sociale sarebbe stata dominata dalle donne: il patriarcato, in altre parole, sarebbe stato preceduto dal matriarcato.
L’idea che in un’epoca remota e imprecisabile il potere fosse stato detenuto dalle donne, peraltro, ha radici ben più lontane e leggendarie, che affondano in alcuni miti greci. Sotto questo aspetto giochiamo in casa, verrebbe da dire parafrasando il gergo sportivo, dato che il concetto ideale di una parità di genere ante-litteram è da ricercare nell’Antica Grecia e, nello specifico, nella colonia Magno-Greca di LocriEpizephiri. Partendo proprio da presupposti mitologici che, ancorché non supportati scientificamente da fonti certe, una qualche forma di verità storica per analogia sempre rivelano, infatti, possiamo spiegare in tal modo il mito delle Donne delle Cento Case, le risultanze delle ricerche storiche condotte da Polibio sul perché a Locri venisse usato il matronimico per identificare figli, oppure ancora la rappresentazione della commedia di Aristofane Tesmoforiazuse, rappresentata e messa in scena ogni anno in onore di Demetra dalle donne e per le sole donne, una sorta di esorcizzante Giornata della Donna dei nostri tempi.
Sul tema ci vengono in soccorso illustri studiosi, come Eva Cantarella, riconosciuta storica, giurista, sociologa e accademica italiana, (a cui mi legano gli studi universitari di Diritto Romano e Diritto Greco), che si è sempre diffusamente occupata delle società antiche e che così ha avuto modo di soffermarsi sull’argomento:

In Calabria (zona nella quale, secondo la letteratura ottocentesca, sarebbe esistito il matriarcato) le donne hanno un ruolo determinante nel mito di fondazione di ben tre città: Caulonia, Taranto e Locri Epizefiri. Caulonia, dice il mito, fu fondata nel luogo ove approdò l’amazzone Cleta, colta da una tempesta mentre si recava a Troia per dare sepoltura alla compagna Pentesilea, uccisa da Achille. Taranto fu fondata da un gruppo di iloti (invero erano i Partheni, seppur trattati a Sparta come Iloti), che durante la guerra messenica si erano uniti a donne spartane libere e, alla fine della guerra, furono scacciati. Locri Epizefiri, infine, città dove la discendenza sarebbe stata matrilineare, fu fondata dagli schiavi dei locresi di Grecia che, mentre i loro padroni combattevano accanto agli Spartani, si unirono alle donne di Sparta […]. All’origine della città, in questi miti, accanto alle donne stanno gli schiavi: esseri, dunque, esclusi per definizione dal potere, esattamente come le donne, anche se in base a regole giuridiche e meccanismi sociali diversi. Nel mito, per concludere, il potere femminile, quando non è lo specchio di un ritorno allo stato selvaggio, altro non è che la realtà sociale capovolta, ribaltata, spesso addirittura impensabile.

Per Locri Antica non bisogna parlare pertanto di matriarcato, ma di matrilinearità, si vedano a tal proposito gli studi dello svizzero Johann Jakob Bachofen quali validi contributi al riguardo, che evidenziano come in alcune comunità della storia più antica fosse stato riconosciuto un sistema di parentela e di eredità secondo la linea materna molto vicino al concetto di matrilinearità, e di come una tale tipologia di istituto fosse riscontrabile in molte società antiche che contemplavano forme analoghe di relazioni sociali, vedasi ad esempio presso i dorici, dove era prevista la facoltà per la donna, in accordo e in costanza di matrimonio, di avere figli con un uomo diverso, oppure ancora nella previsione legislativa di Licurgo, che consentiva anche agli spartani tale consuetudine al fine di mantenere una prole cospicua non solo per esigenze belliche, ma per l’esistenza stessa della stirpe, in quanto l’aspettativa di vita non superava i 25 anni. Infatti la mortalità infantile, le malattie e, infine, le guerre, falcidiavano una popolazione di per sé non numerosa. Da qui l’esigenza di natalità, a prescindere dalla legittimità del matrimonio, per la sopravvivenza della razza e, poiché la prole sicuramente aveva una certezza solo nel ramo femminile, ma non in quello maschile, ecco che il patronimico certo era quello matrilineare e non quello paterno.
Intorno alla metà del XIX secolo furono pubblicate due opere antropologiche ed etnologiche che affrontavano la questione matriarcato-matrilinearità da un altro punto di vista.

Si trattava di Das Mutterecht (1861), de Bachofen menzionato poc’anzi, e di Ancient Society (1877) dell’americano Lewis Henry Morgan. Il primo, come detto, cercò di dimostrare che nelle società più antiche l’umanità aveva conosciuto un sistema di parentela e di eredità secondo la linea materna; il secondo affermò che le società primitive erano organizzate come un clan collettivistico e che quello matrilineare costituiva l’antecedente di quello patrilineare. Entrambi conclusero che nel matriarcato le donne dominavano gli uomini.
Bisogna arrivare a metà del ‘900 per (ri)mettere in discussione l’identificazione dell’organizzazione matrilineare col matriarcato, registrando come in alcune pubblicazioni storico-etnografiche marxiste, si affermasse che le realtà del matriarcato, intese come dominio delle donne sugli uomini,non fossero mai realmente esistite e che le dottrine ottocentesche costituissero una forma di reazione, condizionata e legata, allo stile di vita della società patriarcale dell’epoca, minando così le basi delle convinzioni secondo cui credere all’esistenza di un matriarcato con caratteristiche socio-politiche e organizzative simili a un patriarcato rovesciato.
Possiamo quindi dedurre che in alcune comunità antiche il ruolo della donna fosse tenuto in alta considerazione semplicemente perché esisteva un’ampia forma di democrazia che aspirava a pareggiare e bilanciare rapporti e consuetudini, riconoscendo alla donna maggiori prerogative sociali, in considerazione del fatto che il ciclo riproduttivo le privava di tempo e di forze che l’uomo poteva utilizzare in altro modo.
Criticità e analogie di strettissima attualità, verrebbe da dire, che la società contemporanea si trova, ancora oggi, a dover risolvere con interventi legislativi e politiche di genere al fine della piena realizzazione del principio di uguaglianza fra uomo e donna.
I miti,pertanto, pur discendendo da origini divine, celavano sempre una ragione e una chiave di lettura storica, politica e giuridica. Ne discende, quindi, che anche in tema di parità di genere, nella cosiddetta Città delle Donne, si assistette a una particolare e consequenziale legislazione, potremmo definire oggi, di sopravvivenza, in quanto, per le vicende storiche che portarono allo sbarco delle donne e degli schiavi locresi sulle coste calabresi, del matriarcato se ne dovette fare una virtù, essendoci a monte una necessità.
Tale contesto costituì l’humus peculiare della legislazione di Zaleuco Locrese, riconosciuto come il primo legislatore e autore del primo codice di leggi scritte del mondo occidentale, la cui importanza fu notevole in quanto, per la prima volta, le leggi venivano sottratte all’arbitrario uso che ne facevano i giudici in quei tempi. Aspetti sottolineati anche da Strabone, che affermava che “mentre prima si affidava ai giudici il compito di determinare la pena per ciascun delitto, Zaleuco la determinò nelle Leggi stesse.
La pena, quindi, doveva essere “uguale per tutti e a tutti nota”, un principio rivoluzionario per l’epoca che dovette, per necessità, maturare criticamente in un contesto storico e politico complesso, come la società civile del tempo richiedeva. Un codice di leggi moderne che, ancorché risalente a circa venticinque secoli fa, conteneva principi e linguaggi che precorrevano di molto i tempi contemporanei.
In tale prospettica impostazione di fondo si potrà meglio comprendere il principio giuridico esegetico della parità di genere, per cui le leggi locresi venissero declinate sia al maschile che al femminile: “Nessun locrese può avere né schiavi, né schiave,all’adultero e all’adultera cavar si debbon gli occhi”… Analogamente, e sempre in via ermeneutica, si potrebbe interpretare il principio antidiscriminatorio riconosciuto nella stessa società, per come da richiami e citazioni dei maggiori storici greci, tra i quali Timeo di Tauromenio, che sull’origine servile dei locresi osservava come fosse tassativamente previsto che: “nessun locrese può avere né schiave né schiavi, evidenziando come proprio le origini umili e integranti costituissero il presupposto della grandezza di una società civile ben organizzata e molto raffinata. Un principio inclusivo ed antidiscriminatorio  in quanto era impossibile, per degli schiavi, concepire una società fondata sugli schiavi, tanto più apprezzabile quanto più tenuta in debita considerazione l’importanza economica che la schiavitù rappresentava per i Greci.
Possiamo in conclusione affermare che, nonostante la parità di genere fosse un principio quasi completamente ignorato presso altre civiltà antiche, tuttavia, a Locri Epizephiri e in altre colonie magno-greche, vi era una concezione della donna di grande importanza e rilevanza sociale, in stretta conseguenza e correlazione alla matrilinearità, che dava diritto e potere appunto alle donne stesse di tramandare il matronimico ai figli.

Redazione

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