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Costume e Società

Il bracconiere e lo Zinnapoticu


Edil Merici

U Zinnapoticu trascorreva le sue giornate nei pressi della fiumara Santa Venere; e quando non emergeva dall’acqua per passare da uno stagno all’altro, se ne stava in tutta tranquillità sguazzando sui fondali. Fu un tale di nome Sgrò, contadino di Caraffa del Bianco, il primo a insistere sulla sua esistenza. E altri ancora (tutti i contadini, pastori, coloni, boscaioli) gli andarono dietro con l’eccitazione di un bimbo ai primi passi. È possibile che nemmeno loro sapessero di cosa stessero parlando. Ciò però non li dispensava dall’insistere sul fatto che lo Zinnapoticu era un mostro di discrete dimensioni, per metà pesce per metà uccello. Infatti giuravano che, mentre gironzolavano (chi nei paraggi della Fiumara Santa Venere, chi attingeva l’acqua o girava la mastra per irrigare l’orto, oppure, come nel caso dello Sgrò, a pesca di anguille), le acque si sollevarono spaventosamente all’improvviso e ne venne fuori uno strano esemplare alato. Esso possedeva delle piccole pinne di delfino sul dorso, le zampe d’oca, la coda di pesce, il becco a spada e il corpo ricoperto di minuscole piume dei colori dell’arcobaleno. In breve, aveva tutte le sembianze dei pterodattili, della famiglia dei pterosauri.
Della fiumara di Santa Venere ci parlò Saverio Strati nel suo romanzo vincitore del Premio Campiello Il selvaggio di Santa Venere, ma mai fece riferimento (che fossero leggende o meno) a storie come questa. Eppure, come ho già detto, Sgrò, insieme una sfilza di altre persone, giurarono di aver assistito in una o più occasioni alle immersioni o emersioni di questo strano animale. Ma quanto c’è di vero in questo?
E quanto di leggenda?
Che le vite dei nostri avi siano costellate di strani racconti, in cui curiosi esseri animali calcavano la scena delle lunghe e faticose giornate, non è una novità. Basta pensare che discendiamo dai greci e che, come tali, abbiamo ereditato la mitologia. Ma proviamo, seppure per un solo attimo, a immergerci in questa realtà. Chi ci assicura, insomma, che questo strano animale per metà pesce e metà uccello non sia realmente esistito?
E se si trattasse davvero di una specie catalogabile al periodo giurassico che per qualche strano prodigio fosse riuscita a scampare all’estinzione, magari ancorandosi proprio in quella angusta estremità di mondo?
D’altronde, la prova che nel periodo giurassico ci fossero i dinosauri anche alle nostre latitudini non è affatto una novità. Certo, sarebbe un controsenso pretendere di rimettere in piedi una specie estinta milioni di anni fa. Eppure, si direbbe che le cose stiano proprio in questo modo, anche se potrebbe trattarsi di creature non necessariamente risalenti all’era giurassica. Come stavo dicendo, stando alle dichiarazioni fornite in passato dal signor Sgrò, del quale abbiamo ritenuto necessario svelare solo il cognome, c’erano buone possibilità che tutto ciò fosse vero. Lui stesso sosteneva di aver assistito per più e più volte alle esibizioni di quest’essere che tanto interesse aveva destato allora nella zona (del resto stiamo parlando di quasi cent’anni fa). Raccontava che in una di queste occasioni gli fosse accaduto un episodio curioso, quello che diede, appunto, voce alla leggenda, se di leggenda si trattò!
Diciamo pure che Sgrò era quello che oggi, a titolo di legge, si può definire un bracconiere. Infatti, come del resto la maggior parte dei contadini di allora, oltre a vivere dei prodotti della terra, viveva di selvaggina.
Nel triangolo di Mendulà, Fronzè e Santa Venere aveva, appunto, posizionato le sue trappole, da cui ricavava quotidianamente un modesto bottino. Ciò includeva: tordi, pettirossi, merli, beccacce e quaglie. Ma comprendeva pure una vasta gamma di altri animaletti quali ghiri, ricci e topi. Non c’è di che stupirsi dato che, con la fame che c’era allora, persino i topi finivano in pentola. Ovviamente si trattava di topi di campagna che si nutrivano di ghiande, bacche, olive, frutta e mandorle. Ebbene, il signor Sgrò era un valido cacciatore di frodo, anche se la sua vera specialità era la pesca delle anguille sui fondali della Fiumara. E fu proprio in una di queste uscite di pesca che gli accade ciò che in un primo momento lo sconvolse e che successivamente lo portò a diffondere quella verità che diede vita alla storia che stiamo narrando. Ebbene, mentre con forchettone e canna era intento ad agguantare un anguilla, dall’acqua emerse, quasi con la forza e l’esuberanza di un demonio infernale, la strana creatura. Ciò successe così inaspettatamente che il pover’uomo ne rimase confuso. Potè comunque constatare, certo non senza meraviglia, che la creatura possedeva le dimensioni di un tacchino gigante: le ali, la cui apertura era di almeno quattro metri, erano a ombrello come quelle dei pipistrelli, mentre sul dorso delle stesse, tra le pinne dorsali come quelle dei pesci, spiccava un piumaggio dai colori dell’arcobaleno; le zampe a oca, cioè prive di artigli, si allungavano fino a raggiungere la coda che era simile a quella delle sarde, sosteneva Sgrò. Il fatto che non avesse artigli non ne faceva però un animale innocuo. Tutt’altro, se si considera che il suo becco possedeva una stretta impressionante. E fu proprio con l’aiuto del becco che il mostro tentò di strappargli il bottino di pesca: l’anguilla che nel frattempo aveva catturato. Si verificò una lotta di diversi minuti. Certo, Sgrò avrebbe ceduto ben volentieri il suo bottino al mostro se non fosse stato che l’anguilla gli era rimasta attorcigliata al braccio, perché, al contrario dello Zinnapoticu, lui stava lottando per liberarsi dalla preda. Fortunatamente il mostro, dopo vari tentativi andati a vuoto, rinunciò e, con un’energica battuta di ali scomparve tra gli oleandri e le fitte fronde. Fu così che il povero Sgrò poté tornare al paese e iniziare a dar adito alla sua disavventura, che nei giorni successivi fu vissuta (come spesso succede in casi come questo) in prima persona da tanti e tanti altri contadini, pastori, boscaioli, coloni, latifondisti, vaccari e così via. Storia che, ben presto, transitando da un focolare all’altro, da comare a comare, da compare a compare, da paese a paese, divenne la leggenda che oggi conosciamo.


GRF

Francesco Marrapodi

Francesco Marrapodi approda a Métis dopo aver ricoperto importanti ruoli in altre testate giornalistiche. 
È stato Redattore Capo per la provincia di Reggio Calabria de “L’Attualità”, collaborato con “Calabria Letteraria” e con “Alganews”, nonché con la testata giornalistica “In Aspromonte”. 
Ha studiato tecniche e metodi di scrittura del “Gotham Writers' Workshop”, è stato inserito nell’antologia “Ho conosciuto Gerico” in onore di Alda Merini con la poesia “La Nova” e fa parte dell’“Unione Poeti dialettali di Calabria”.
L’8 agosto del 2014 ha realizzato sulla spiaggia di Bianco una statua di sabbia raffigurante Papa Francesco, evento recensito da “Famiglia Cristiana” per il quale ha ricevuto il ringraziamento e la benedizione del Papa in persona. 
Si è reso inoltre promotore di una campagna contro l’inquinamento marino con “La morte di Poseidone”, statua di sabbia che ha suscitato grande interesse in tutto il mondo. 
Francesco è oggi un punto di riferimento redazionale su Bianco e dintorni, con un ruolo di primo piano nella Redazione Cultura.

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