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Costume e SocietàLetteratura

Le parole nella lingua della zona grecanica e il loro custode

La Voce Letteraria


Edil Merici

Di Luisa Ranieri

L’iter di carattere paesaggistico, storico e sociale da me proposto alcuni mesi fa sulla Zona Grecanica, sarebbe monco se non mi soffermassi sull’aspetto fondamentale di esso: la lingua ancora in uso da una parte dei suoi abitanti, una lingua a forte rischio di estinzione a causa dello spopolamento dei monti per catastrofi naturali e, soprattutto, per catastrofi a sfondo politico-amministrativo che hanno permesso “la distruzione di un monte secondo legalità” (pagina 130)
Di tale lingua non possediamo la forma scritta dal momento che, per riprodurla, sono sempre stati usati i caratteri latini, il che avvalorerebbe la tesi di alcuni studiosi secondo i quali all’origine del fenomeno ci sarebbe stata la latinizzazione voluta dalla Chiesa di Papa Niccolò II nel XII secolo come ritorsione contro le migrazioni dei Bizantini che continuavano a gestire il potere soprattutto ecclesiastico nel Sud Italia (e non solo) fin dal IX secolo. Ci fu allora la persecuzione perpetrata, per brama di potere e facendo ricorso alle più atroci sevizie, dai Normanni, alleati col Papato, contro tutti coloro che parlavano greco nella vita comune e nell’ambito religioso ne usavano i riti.
A quale epoca apparterrebbe, dunque, il grecanico usato nell’Aspromonte Greco? Alle prime migrazioni del VII secolo a.C. oppure a quelle  conseguenti al IX d.C.?
Personalmente, aderisco alla teoria dello studioso tedesco Gerhard Rohlfs che lo fa risalire alle prime migrazioni greche del VII secolo a.C. e, quindi, a un Greco molto più antico e meno contaminato dai successivi eventi storici: una visita a lui dedicata al Museo della Lingua greco-calabra di Bova, riserverebbe molte sorprese agli appassionati del settore.
In questa mia trattazione mi farò guidare, quindi, dalle sue intuizioni di glottologo e, soprattutto, da Gioacchino Criaco, il grande scrittore che a tale lingua e alla cultura a essa sottesa ha dedicato l’ultimo suo libro, Il custode delle parole, edito il 14 giugno del corrente anno dalla Feltrinelli di Milano.
La definizione, però, di Criaco semplicemente come scrittore, secondo me, è alquanto riduttiva, essendo lui il grande Aedo dei nostri tempi che con infinito amore ha raccolto le parole che si stanno perdendo e che in tale perdita coinvolgono rovinosamente anche tutta la civiltà che con esse si esprimeva.
Si tratta di un cantore che racconta di come suo Nonno Andrìa (ἀνήρ, ἀνδρός = valoroso combattente), di cui lui, il nipote co-protagonista della storia, porta l’identico nome e cognome (Amèroto, composto di  ἄμα + ἔρως-τος, ovvero “colui che ama in modo appassionato”), rimanga tenacemente attaccato alla culla di tale lingua, l’Aspromonte, la Μάνα γῆ, la Madre Terra, la Montagna bianca (ἄσπρος-α-ον) e pertanto “luminosa”, “lucente” e di come tenti con tutti i mezzi, anche illegali, di proteggerla dai nemici, esterni e interni, che la vogliono saccheggiare e far morire.
La armi del Vecchio, che, come tutti i vecchi montanari, odia il mare della  diaspora governativa imposta dopo l’alluvione del 1951, sono le asce e il tritolo con cui fa saltare le centraline che azionano la Grande Diga del Dendronìvalo che, per dissetare la costa arsa dal sole e, soprattutto, dalle cattive amministrazioni, impoverisce della linfa vitale la montagna tutta.
Le armi del giovane Amèroto sono, invece, sostanzialmente pacifiche ma molto più potenti di quelle del Nonno e consistono in una penna che riflette e fa riflettere, che fa prendere coscienza non solo a lui che scrive  ma anche a tutti i suoi lettori.
Sono le armi che uniscono e non dividono i mondi della costa e della montagna, che non dividono ma uniscono i popoli di qua e di là dal mare, quelle che descrivono l’aspromontano come un popolo pacifico che non ha mai fatto guerra a nessuno ma ha sempre accolto chiunque sbarcasse sulle sue coste e si inoltrasse su per la montagna.
E ci sembra di risentire la voce di Antigone quando il giovane Andrìa/ Criaco oppone il concetto di umanità a quello di una legalità vuota di contenuti sociali e spesso al servizio più dei potentati locali che della povera gente.
È da condannare, infatti, una famiglia come la sua che ha salvato, nutrito  e amato un clandestino destinato ad annegare nello Jonio e che ha cercato di sabotare le dighe predatorie della vita naturale della Grande Madre, ubbidendo alla sola legge in cui da sempre si è riconosciuta, quella della tutela della vita e del più autentico senso della parola umanità?
Sempre attraverso la penna, il nostro Aedo riconosce e ci fa riconoscere il tenace filo che in Calabria unisce l’Oriente con l’Africa, quel filo di cui sia gli abitanti del mare sia quelli della montagna sono impastati. E lo fa unendo la vicenda del migrante Yidir salvato dalla morte in mare, con quella dell’antenato Tripolino degli Amèroto, sbarcato nel deserto libico e mai più tornato in Calabria.
Il testo, che riprende alcuni dei concetti già presenti ne La Maligredi (“Il vento non distrugge le vite, le sposta soltanto da un paese all’altro”. “Per capire questo monte, il desiderio di libertà bisogna averlo dentro”), parla del destino che ci guida attraverso itinerari solo apparentemente indecifrabili ma che in realtà, attraverso essi, tende a farci prendere coscienza di noi stessi e del nostro posto nella Storia, che da altro non è formata se non dall’insieme di tante storie.
Nel capitolo Un ballo sullo Stretto il giovane Amèroto, riflettendo dice: «Nonno qui non si siederebbe, vedrebbe subito spalancate le fauci di Scilla e Cariddi, anziché i colori notturni di due città fantastiche, Reggio e Messina. Invece, il mio mondo, per quanto incompleto senza l’Aspromonte, non significherebbe nulla se accanto alla montagna non ci fosse il rombo della tempesta o la quiete passeggera di un mare calmo o mancasse il fuoco d’artificio dei colori che adornano la piana della Locride, col profumo delle zagare e dei gelsomini e in bocca il gusto amaro degli oleandri. I miei occhi hanno bisogno sia dei lecci che delle agavi, di un panorama che abbracci le creste dei monti e quelle delle onde”(pag. 169).
Il vecchio nonno (pappua da πάππος-ου) muore per una ferita infertagli dalle forze dell’ordine in una delle sue incursioni notturne per la salvezza della montagna e viene sepolto nel Camposanto di Africo, il camposanto che contiene gli altri antenati piciari, cioè quelli che, raccogliendo la pece spontaneamente donata dai pini larici del posto, un tempo la restituivano  in forma di pane ai poveri (vedi la leggenda sul Santo protettore del posto, San Leo, venerato ancor oggi in tutta la Bovesia).
“Il Camposanto è su una cima, circondata da altre vette tra cui Montalto, la punta che tocca il cielo, la lucente madre bianca che ha figliato un popolo che si è disperso. Nonno non si è disperso, è qua per sempre. E nemmeno io voglio disperdermi, Ora so cosa devo fare. Ho una storia, e io sono la mia storia, conosco dove nonno ha nascosto il sacco dentro cui custodiva tutte le parole del nostro popolo: nel greco aspromontano al posto di morire si può dire volare. E chi vola non muore mai” (pag. 198).


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