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Costume e SocietàLetteratura

Quando il paese è madre che nutre e nemico che uccide


Edil Merici

Di Luisa Ranieri

C’è l’epopea di tutto un popolo ne La maligredi, il romanzo corale di Gioacchino Criaco pubblicato nel 2018 dopo il più noto Anime nere, ma che in realtà lo precede sia come substrato narrativo che come possibile chiave interpretativa.
Il titolo, una voce popolare etimologicamente derivata dal latino malum ingredi, allude al male, sia fisico che morale, che “quando arriva… spacca i paesi, le famiglie, fa dei fratelli tanti Caini e avvelena il sangue fino alla settima generazione”.
Il testo, attraverso la narrazione, ci offre mille occasioni di riflessioni storico-sociali valide anche ai nostri giorni.
Cercherò di seguirne alcune, che definirei portanti ma non esaustive di un libro che a ogni pagina si rivela prezioso contenitore di profonde verità umane ,trasmesse per di più tramite un lirismo così accentuato e coinvolgente da farci pensare che ci troviamo dinanzi a un prosatore-poeta nel senso più alto del termine.

La lotta tra il Male e il Bene

Se il Male si manifesta in tutta la sua forza distruttrice nell’ultima parte del libro, esso comincia a serpeggiare fin dalle prime pagine, vanamente contrastato da un Bene che sembra destinato sempre a soccombere.
Esso compare per la prima volta non tanto con l’alluvione del 1951che ha terribilmente investito il paese di Africo, quanto con le successive decisioni amministrative che hanno condannato a una deportazione di fatto un’intera comunità che, fino ad allora, era vissuta povera ma libera e indomita nel cuore dell’Aspromonte greco calabrese.
E così, dall’oggi al domani, le famiglie tutte avevano dovuto abbandonare, con le loro casupole, anche il modello di una vita e di un’economia basato sulla pastorizia, sulla coltivazione di piccoli appezzamenti e, soprattutto, sulla cura di Mana Ghi (Μάνα γῆ), la Terra Madre con cui, usando il greco dei padri, amavano definire l’unica entità che aveva sempre dato loro da mangiare, da vivere e da sopravvivere in perfetta simbiosi con i monti circostanti.
Africo Antico è diventato, così, al pari di Roghudi, di Pentedattilo e di altre località consimili, un paese fantasma abbandonato a sé stesso e alla Natura che si è ripresa inesorabilmente i suoi spazi.
La nuova Africo aveva offerto, per contro, una sistemazione abitativa da disoccupati in una zona della costa ionica posta sopra una palude talmente mefitica da produrre nel tempo agli abitanti non solo radicali deprivazioni economiche, ma anche gravi malattie fisiche e malesseri psicologici.

Gli anziani… al mattino si alzavano, scendevano fino alla Nazionale e andavano a mettersi in fila lungo il ponte sopra la fiumara: da lì si vedevano le montagne dove ci stavano le case in cui erano nati. Si guardavano la sagoma massiccia del Monte Scapparone e della monumentale quercia di Dorgada come fosse stata una gigantesca fotografia, il paese stava proprio in mezzo al picco e all’albero, che se lo coccolavano con gli occhi come il primo figlio di una giovane coppia di sposi.
pagina 167

Il discorso del pastore Zzu Binu (pag. 254) già dall’incipit (“ in montagna morivamo di fame, ma sani”) dimostra tutta l’insipienza delle scelte imposte dall’alto da uno Stato indifferente alla sofferenza dei suoi cittadini.
E, infatti, invece di predisporre per gli Africoti la costruzione di un nuovo abitato montano su una roccia pianeggiante ma vicino a una terra estremamente fertile e adatta ai pascoli come quella aspromontana, si era preferito prenderli e trasportali “a casa di Cristo” costringendoli a una vita da eterni “sperduti per il mondo come capre senza campanelli”.
Per non parlare della grande speranza, sempre disattesa, del popolo calabrese circa l’equa distribuzione delle terre: lotte sempre soffocate nel sangue dai potentati delle varie epoche, come ci dimostrano anche gli scritti di Mario La Cava, di Saverio Strati e di altri grandi della letteratura calabrese e italiana.
E la strada, che in 20 chilometri avrebbe potuto riportare i nuovi esuli direttamente dalla costa a curare i loro possedimenti su in montagna non era stata (e non è stata ancora) fatta, con la conseguenza di doversi sottoporre a un periplo di circa 80 chilometri per “marine e marine” prima di arrivare, esausti, a destinazione.
E la catena del Male legato allo spopolamento della montagna ha allungato i suoi nefasti tentacoli fino ai nostri giorni perché, portandosi via la sapiente presenza dei pastori, ha abbandonato all’incuria la custodia di boschi preziosi per l’ecosistema calabrese, come abbiamo purtroppo dovuto constatare nel corso degli incendi furiosi della scorsa estate.
A contrastare lo straniamento imposto dalla nuova condizione, la comunità si stringe compatta nel Bene della solidarietà e della conservazione degli antichi riti montani, anche se, per esempio, a quello dei cunti un tempo raccontati in piazza dagli anziani del paese, si sostituiscono le serate all’aperto davanti al televisore fornito in prestito dalla moglie di Giannino, un ex carabiniere in pensione, con relativo e quotidiano  spostamento di cavi e antenne da casa al luogo deputato.

I condizionamenti e le scelte giovanili

In un posto che non può essere neppure definito paese per la mancanza di tutto e, soprattutto, della Stazione Ferroviaria, con i giovani che vanno alle Scuole superiori del circondario costretti a saltare direttamente sul treno che rallenta ma non si ferma;  in un posto di povertà tanto accentuata da rendere per i suoi abitanti impossibile comprare persino la frutta in una Calabria che in ogni stagione ne è più che ricca, in un tal posto le scelte dei giovani possono essere veramente libere?
Il protagonista Nicola (Nichino) e gli amici Filippo e Antonio, nella narrazione   diventano gli emblemi di una vita allo sbando: il primo, senza la guida del padre che, emigrato in Germania, si è là rifatto una vita abbandonando anche economicamente  la moglie e i tre figli; il secondo che, cresciuto in una famiglia di malandrini, si è convinto che solo quella del malaffare sia la via da seguire e Antonio, che è il più dotato di ingegno ma anche il più scarso in quanto a possibilità economiche.
In un tale contesto di deprivazione materiale e affettiva può non essere troppo strano che i tre ritengano “più facile” la via della valentizza e della drittizza che due malandrini non affibbiati prospettano loro con la proposta dell’occultamento di una borsa piena di soldi e di armi sulla cui provenienza non indagano più di tanto («Che ci sarà dentro?» chiede Nicola agli amici. «Nicò, dentro ci sono cinquantamila lire. Solo a questo dobbiamo pensare» – pag. 70)
E così imboccano una via che li spinge, di avventura ad avventura, al compimento di azioni illegali sempre più gravi.
Non manca certo, in Nichino, il rimorso quando si chiede “Che abbiamo fatto?” seguito dal pentimento (“Una voce mi urlava dentro: scappa, è un sacrilegio”) ma in lui e nei suoi amici prendono il sopravvento la spavalderia dell’età e l’incoscienza di ciò che sta avvenendo intorno a loro, ben riassunto dalle parole, purtroppo drammaticamente profetiche, del barista Rocco:

«Pensate di essere invisibili? Questi non sono posti in cui uno ci si può fare i cazzi propri… Non rassicuratevi con i malandrini di berritta storta e annacamento che – a parte quelli da ridere – i nuovi che stanno arrivando ragionano a numeri grossi, guardano al futuro e vedono da subito chi gli sarà d’inciampo lungo la strada. State attenti. Chi non dovrebbe vedere, invece vede tutto, stanno venendo tempi di una fibbia che non si farà pensiero di riempire fossi con chi si crede furbo, scaveranno buche così profonde che gli illusi non li troveranno mancu chi i cani i caccia.»
pagg. 149-150

Il sodalizio del Potere e la rivolta del ’68

Le azioni dei tre giovani, infatti, non passano inosservate al segreto, geloso sodalizio che intercorre tra i veri padroni della zona, gli gnuri, ossia i signori con tanto di titolo di studio e possedimenti agrari e finanziari e gli affibbiati che stanno segnando nuovi scenari nella malavita locale.
Se poi a tale sodalizio si unisce anche il potere legale che, nel 1968, si muove con l’esercito armato contro cortei di persone formati per lo più da donne, ragazzi, vecchi e bambini che reclamano i loro diritti, non ci può essere alcun argine al dilagare del Male che, come il vento Bruschiu in natura, così in ambito sociale viene a spazzare via del tutto le rivendicazioni portate avanti dall’anarchico Papula e condivise dalla popolazione, soprattutto studentesca, della Locride.
Il Bruschiu, infatti, porta morte perché, col suo fiato rovente, fa morire la vegetazione, asciuga le acque dei fiumi e rende “inutili i gemiti dei pastori. Disonora la grande madre mettendole in grembo il fiele e lasciandole in petto a dondolare vuote e inutili verine” (pag. 197).
Allo stesso modo la prepotenza di una classe sociale contro l’altra porta, in contemporanea con la rivoluzione, anche alla morte violenta per mano ignota di  Rocco e al grave ferimento di Papula che, tornato ad Africo Nuovo con la numerosa famiglia dalla Germania, aveva insegnato che un altro tipo di vita era possibile:

I meriti di Papula […] erano stati tanti […]. Era stato come un trattore che girando la terra aveva messo allo scoperto anche i sassi e forse manco voleva farlo, ma ci aveva mostrato un’altra storia oltre a quella zuccherata dei cunti.
pag. 233

A salvare i tre ragazzi dal disastro ci pensa tutta la comunità africota, che organizza per loro una fuga nel territorio della, a essi ancora sconosciuta, Terra Madre, fuga permessa dal comprensivo Giannino e dal generoso pastore zzu Binu, che li porta in salvo attraverso le vie e i misteri più profondi di Mana Ghi.

La montagna! Da che mi ricordavo ne sentivo parlare, ma mai mi sarei immaginato di doverla pensare come il rifugio più sicuro.
pag. 258

“Il vento non distrugge le vite, le sposta soltanto da un paese all’altro”

Foto: mtdagostino.wordpress.com


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