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Costume e SocietàLetteratura

Il cavaliere

La tela del ragno

Di Francesco Cesare Strangio

Il ragazzo che li attendeva al cancello, dopo essersi presentato, invitò i tre a entrare dicendo che suo padre li attendeva nel salone.
L’amico, che di nome faceva Ferdinando, era in piedi davanti alla porta della stanza e. nel vedere Aquilino, con occhi sinceri, disse: «Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti sei fatto vedere?»
«Saranno un paio d’anni» rispose Aquilino.
I due slovacchi rimasero impressionati dalla ricchezza che ostentava quel luogo e da come l’uomo aveva accolto l’amico Aquilino.
Il padrone di casa li fece accomodare nell’ampio salone davanti a un caminetto straordinariamente lavorato; la legna ardeva e le fiammelle animavano immagini che cullavano la fantasia di chi stava seduto davanti a quella magnificenza. Una donna si avvicinò con fare garbato e, rivolgendosi al proprietario gli diede il titolo di cavaliere.
Nel sentire il titolo, Aquilino volle sapere da dove prendeva origini il titolo di cavaliere.
Lui disse di essere stato insignito direttamente dal Presidente della Repubblica come Cavaliere del lavoro.
L’amico si congratulò annuendo compiaciuto.
Erano giovani quando avevano lasciato la terra natia: Aquilino si era fermato a Salerno, mentre il Cavaliere aveva proseguito per la Capitale. Dopo tutti quegli anni, animati da gioiosi e affettuosi ricordi, chi avrebbe mai pensato che si sarebbero ritrovati a sessant’anni per discutere di morte? Il destino, si sa, è impietoso e a volte si scaglia contro gli uomini con incomprensibile e spietata tirannia.
Il Cavaliere disse di essere affetto da diabete e che doveva fare uso dell’insulina, la malattia gli stava portando via la vista e i reni. Per cambiare discorso, domandò all’amico come gli andavano le cose.
Aquilino si era distratto un attimo pensando a quando erano ragazzini e, avvedutosi che l’amico era in attesa di ricevere risposta, prese a dire: «Tutto procede, il dramma è che a volte, durante il cammino della vita avvengono cose che dispiacciono e turbano il normale equilibrio del mondo interiore. Se oggi sono qui, è in conseguenza dell’avidità e dell’incapacità di alcuni uomini di discernere il bene dal male.»
Aquilino, dopo un lungo girovagare di parole, arrivò al dunque, raccontando a Ferdinando il vento che lo aveva spinto dalla Slovacchia fino a casa sua.
L’inizio di marzo fu animato da un turbine funesto che scurò l’anima dell’imprenditore come il fondo di una pentola a lungo tempo esposta al fumo del fuoco della legna. Il Cavaliere ascoltò i tre attentamente, senza mai interromperli. La logica di quel racconto, scendendo nelle nere e temibili vie degli inferi, aveva perso la dimensione dell’umano.
Alla fine della triste narrativa del fratello di Bobbo, seguì un cupo e sinistro silenzio. Nel salone non si sentiva volare una mosca, fatta accezione per la legna che scoppiettava allegramente senza dover rendere conto a nessuno. Sul divano un gatto nero, acciambellato, era immerso nei suoi sogni. Fuori, il cielo divenne plumbeo e dopo un po’ iniziò un crescente piovigginare che poi divenne pioggia scrosciante. Il rumore dell’acqua soffocò il vociare della legna. Un paio di fulmini, accompagnati dal boato dei tuoni, segnò la fine del temporale.
I presenti si guardavano senza proferire verbo, poi il silenzio degli umani fu interrotto dal miagolio del gatto. Il capo clan aveva valutato la situazione e si pronunciò favorevole a dare una mano d’aiuto agli slovacchi. In contropartita, Nando chiese l’esclusiva sulla fornitura di droga al mercato che andava a controllare la famiglia di Bobbo.
Poi, rivolgendosi ad Aquilino, disse: «Forse, l’azienda della produzione delle pizze surgelate potrebbe interessare alla mia famiglia, fermo restando che se lo stabilimento vale cento, te ne do duecento.»
A sentire quelle parole, il volto di Aquilino rimase privo di qualunque espressione, ma in cuor suo era compiaciuto dalle parole proferite dall’amico. Il cavaliere, rivolgendosi ai due slovacchi, chiese cosa ne pensassero su quanto avesse detto.
Si trovarono d’accordo su tutto; poi chiesero come intendesse agire. Ferdinando disse che loro si dovevano occupare soltanto della logistica, al resto avrebbe pensato la sua organizzazione. Era importante che tutte le informazioni in loro possesso fossero trasferite al capo del commando che sarebbe partito per Košice il giorno prima del loro rientro, poi avrebbero preso contatto tra di loro, attraverso Aquilino.
Era importante che il commando colpisse con precisione assoluta, senza commettere il minimo errore; l’operazione doveva terminare con una strage chirurgica, senza coinvolgere persone che non c’entravano nulla con la questione.
«L’aspetto più importante – disse Ferdinando – è che il messaggio arrivi a destinazione evitando la spettacolarizzazione.»
Lo slovacco gli domandò cosa intendesse per “spettacolarizzazione”.
Il cavaliere chiarì il concetto dicendo: «La spettacolarizzazione può appagare il fuoco che uno si porta dentro, placare la terribile sete di vendetta, ma di contro equivale ad attirare l’attenzione e le persecuzioni da parte delle istituzioni. Il nostro forte è agire come i virus, in silenzio, evitando che gli anticorpi si accorgano per tempo della loro presenza. I soggetti devono svanire nel nulla, senza lasciare tracce. Si deve vedere l’effetto ma non si deve sapere da quale parte sia arrivato l’angelo della morte. A tempo debito, e a fine operazione, si andrà a negoziare l’armistizio con la partecipazione, come garanti, di alcuni amici della mafia russa e la mia personale presenza.»

Continua…

Foto: cavalieridellavoro.it


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