Il sol dell’avvenir
Di Mario Staglianò
In una favola profetica Michael Ende raccontava di un angelo dentro una città cinta da mura altissime. Grazie alle sue candide ali, in ogni momento, potrebbe spiccare il volo e scappare ma, ogni volta che sta per alzarsi in cielo, è frenato o da qualche paura o da qualche obbligo. Alla fine del giorno l’angelo è stremato e sfinito. Le sue ali (diventate sfibrate, non più candide, grigie di mestizia) giacciono al suolo incapaci di sollevarsi. Con l’ultimo raggio del sole morente l’angelo comprende di avere sprecato la sua unica possibilità. Le sue ali erano fatte per volare, non per restare dentro la città; per vivere avrebbe dovuto rischiare.
E se noi, la nostra società e i nostri governi fossimo simili a quell’angelo? E se la nostra cultura non si sia ripiegata su se stessa in un clima di paura, conservazione e assenza di desiderio? Il futuro sarebbe così, per lo più, un pericolo incombente e non l’orizzonte verso cui realizzare la propria natura.
La nostra società è dominata da un sentimento di paura e insicurezza croniche paradossalmente prodotte dalla ricerca di una sicurezza tanto assoluta quanto irrealizzabile. Una buona metafora di questa condizione è offerta dalla Tana di Franz Kafka dove un animale, per difendersi da ogni pericolo, si costruisce una tana che lo rende prigioniero in cui chi vuole troppa sicurezza è destinato a non smettere mai di sentirsi in pericolo. È l’errore che in Star Wars porta Anakin Skywalker (alias Darth Vader) ad abbracciare il lato oscuro della forza.
Se si analizza l’evoluzione del quadro geopolitico occidentale, dalla fine della guerra fredda fino ai giorni nostri, si può sottolineare come sia paradossale lo stato di eccezione determinato dal ripetersi ininterrotto di continue emergenze. Le continue emergenze (l’attentato delle torre gemelle, la crisi del terrorismo, il crollo economico, la guerre per prevenire il terrorismo, la pandemia e, in questi giorni, la guerra russo/ucraina) producono una cultura paradossale che si muove sui piani paralleli della sicurezza e della paura. Per un’umanità predisposta e, almeno in una certa misura, abituata a vivere in un paradiso sgombro da pericoli, competitori e alternative, la semplice apparizione di un estraneo basta a sollevare un senso quasi apocalittico di minaccia. E così, cessata la grande minaccia del conflitto nucleare/mondiale che aveva contraddistinto il periodo successivo alle guerre mondiali, la società sogna (e spesso dichiara) una fine della storia come percorso dialettico tra forze contrapposte.
Il globalismo capitalista viene innalzato a pan-ideologia senza alternative che non potrà che continuare indefinitamente e in cui non ci sarà mai più niente di nuovo sulla terra. Si afferma che il capitalismo liberista è il compimento dei tempi anche se, è bene ricordarlo, ogni epoca è incapace di immaginare un’alternativa a se stessa per finire poi sepolta dalle sabbie prodotte dal suo stesso sgretolamento.
Il mito dell’eternità dei propri valori (e quindi della sicurezza a ogni costo) determina una serie di trasformazioni semantiche: la guerra diventa un’operazione di pulizia o persino un intervento umanitario; i nemici diventano dei criminali; il diverso è un malato che deve essere guarito; le azioni militari sono azioni di prevenzione. La pandemia è narrata come una guerra e le altre crisi sono spesso raccontate come epidemie (il contagio del debito, delle notizie false, del terrorismo). La guerra è una forma di pulizia e la pulizia biologica è richiesta come manifestazione della pulizia morale. Il cerchio si chiude e si stringe. L’altro non ha più alcuno spazio di manovra perché i valori diventano universali e anche il nuovo viene respinto oltre un futuro remoto e mai raggiungibile.
Al di sotto di una patina di liberalismo la politica diventa, nei fatti, conservatrice. Il fine ultimo non è più la realizzazione di un termine positivo ma l’eliminazione preventiva di qualsiasi fattore metta in discussione lo status quo; una prevenzione che, oltre ad avvenire sempre prima, non deve finire mai. I governi non hanno così altro scopo se non la perpetuazione eterna di se stessi e quindi, come l’animale di Kafka, l’uso della sicurezza come principio negativo per prevenire qualsiasi cambiamento.
È significativo che le minacce siano spesso declinate in modo da imporre una reazione collettiva; dall’uso indiscriminato delle mascherine alle liturgie dei controlli negli aeroporti, dall’alimentazione ai trasporti. La minaccia esterna giustifica lo scivolamento da una dimensione razionale a quella etico/moralistica: la minaccia (esterna) sarà superata solo se chi è all’interno si comporterà in modo corretto. Il pericolo esterno diventa così un principio morale da imporre all’interno. La sicurezza diventa così non solo una condizione pratica, ma un traguardo etico/morale.
La riduzione della vita a assenza di dolore è la base del principio della sicurezza. Non si perseguono principi positivi, ma si elimina la sofferenza. Si desidera solo uno spazio vuoto, da lasciare tale per paura di possibili errori. Pretendere che non ci siano mai vittime, che nessuno soffra, diventa l’unica bussola delle nostre azioni. La cultura della cancellazione e certi estremi della mentalità woke vanno in questa direzione. L’uguaglianza, prima illuminista e poi marxista, da forza positiva diventa un principio puramente negatore. Il desiderio di essere come tutti si trasforma nell’impossibilità di essere veramente qualcuno. Poiché qualsiasi azione o parola, anche la più insospettabile, può produrre dolore ecco che diventa necessario uniformare, indifferenziare, equalizzare, codificare un linguaggio e dei comportamenti sempre più stringenti e limitanti. La sicurezza si manifesta così nella sua dimensione esistenziale e ingloba tutto.
Questa società realizza l’ideale di Bertolt Brecht di un mondo che non ha bisogno di eroi perché non esiste più un orizzonte in cui la sofferenza, il dolore, l’infelicità possano avere un significato che vada oltre gli stati emotivi. Le emozioni, che una volta guidavano il comportamento degli esseri umani, vengono elevate a scopo ultimo della realtà: l’eroismo è impraticabile perché a nulla viene riconosciuto un supremo significato. Laddove Friedrich Nietzsche rivendicava la realizzazione dell’esistenza, qui il rapporto si è invertito: uno stato di benessere psicofisico uniforme è il fine ultimo della società. In questa società dominata dalla ricerca della sicurezza, terrorismo, virus biologici, attacchi informatici, guerre e riscaldamento globale sono presentati come altrettanti errori da correggere per ripristinare quella condizione di assenza di rischio che il capitalismo sente come indispensabile alla sua perpetuazione. Conduciamo un’esistenza che ha per obiettivo, se tutto va bene, come il Sisifo di Albert Camus, di continuare a spingere il macigno sempre più in alto, per poi ripartire da zero senza però uscire veramente dalla città globalizzata e universale. L’uomo occidentale non combatte le minacce per realizzare i suoi obiettivi, ma per mantenere quello spazio vuoto all’interno del quale si possano realizzare le possibilità ammesse dalla globalizzazione. Si tratta di un obiettivo lodevole, ma solo nella misura in cui il nuovo possa essere una vera alternativa al vecchio. Altrimenti il paesaggio della storia è solo un parco giochi capitalista dove la libertà delle persone e degli stati è simile alla libertà del bambino: una libertà controllata, tutelata, medicalizzata, autorizzata.
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