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“L’Atomo inquieto”: Mimmo Gangemi torna a dare ampio respiro al pensiero

La voce letteraria


Edil Merici

Di Luisa Ranieri

È diverso da tutti gli altri romanzi, questo ultimo di Mimmo Gangemi, ma ugualmente magistrale e toccante.
La diversità più consistente sta nella natura del protagonista (o dei protagonisti) che, da Il prezzo della carne del 1993 a Il Popolo di mezzo del 2021 presenta un carattere di piena aderenza, sia nel bene sia nel male, con l’ambiente circostante: mai un pensiero trascendentale, mai qualcuno che, sulla china di azioni soprattutto delittuose, si fermi un momento a pensare, a elaborare un dubbio e, soprattutto, a guardare dentro e sopra di sé. E questo avviene sia nelle campagne calabre intasate dal malaffare, sia in quelle non meno inquietanti della Louisiana o delle metropoli statunitensi. “Azione chiama azione” sembra il mantra di tutte le vicende narrate, quasi in parallelo col “Sangue chiama sangue” dell’antica cultura greca.
Ne L’atomo inquieto l’Ettore Majorana immaginato da Gangemi si situa all’opposto, incarnando in sé tutte le problematiche pirandelliane del protagonista di Uno, nessuno, centomila o de Il fu Mattia Pascal. È un uomo che confessa di portarsi dentro in modo feroce “Le unghiate della vita… i demoni che (gli) vorticano dentro, le manie e le ossessioni, i ricordi che (gli) hanno guastato, reso tortuosa la strada” (Capitolo 6). E la discrasia tra il vero “Sé” e l’“Altro da sé”, tra l’Essere e l’Apparire non può che generare in lui, come del resto in molte persone, dolore se non addirittura un “Cupio dissolvi” destinato a risolversi o in un suicidio fisico o in un annullamento totale di quella persona che gli altri vogliono che sia, continuando a vivere una vita antitetica: nascosta e del tutto sgombra di nome, cognome, identità e addentellati vari.
E tale discrasia, Majorana la vive in modo lacerante sulla propria pelle: sa da sempre che il suo principale, anzi unico e vitale interesse nella vita è la Fisica, ossia lo studio disinteressato dei meccanismi della Natura e che vorrebbe seguire soltanto tale strada, senza essere costretto a diventare per forza un “genio” da inserire come un cammeo nella prestigiosa galleria della famiglia Majorana o una mente straordinaria asservita a oscuri maneggi politici ed economici, per non parlare di quelli “carrieristici” propri degli ambienti universitari o dei prestigiosi centri di ricerca da lui frequentati, sia in Italia sia all’Estero. “Incolpo la scienza di essersi lordata di mondo, di aver smarrito la purezza dell’osservazione disinteressata, di una perfezione da penetrare un passo alla volta, delle leggi della natura da dover scardinare mirando al progresso, al benessere, e non alla distruzione” (Cap.7).
Gli impediscono di essere sé stesso le pressioni soprattutto materne ma, più di tutto, il clima storico in cui si viene a trovare, con un Adolf Hitler disposto a ogni nefandezza pur di avere a portata di mano una bomba atomica con cui piallare il mondo che non si allinei ai suoi progetti, inseguito dalle non meno ambiziose America o Inghilterra, che vogliono l’arma letale per fare finire la guerra e, magari, prendere il posto del potente tedesco.
Ed è complotto per accaparrarsi la presenza sui propri territori delle menti geniali di allora, da Enrico Fermi, il Papa di via Panisperna, a Emilio Segrè, in un clima competitivo da corsa al Nobel, che ci fa intuire un ambiente soffocante di gelosie e di sotterranee, miserabili gare tra le menti eccelse di allora. “È la guerra ad aver disperso la condivisione, per il convincimento che è un campo nel quale si progredirà fino a un’arma potentissima da risolvere le sorti a favore di chi avrà anticipato tutti” (Cap. 5).
In contrasto con tali ambiti storici e professionali, a cui non riesce del tutto a sottrarsi (“Ugualmente continuo e ci metto impegno”, Cap. 9), Ettore si trova a vivere ben sette vite diverse, di cui sono rimaste qua e là delle tracce ma che sono state messe insieme da Gangemi in modo temporalmente consequenziale con la scoperta da parte del protagonista che la migliore è quella “da barbone”, tra gli “umili” naturalmente pronti alla genuinità dei rapporti interpersonali e lontani mille miglia da ogni pressione o intrallazzo. “Dentro di me avverto tante persone, come se avessi vissuto tante vite. Tante vite spiegano tanti nomi. Ma i tanti nomi non spiegano le tante vite”(Cap. 1).
Queste sono, a grandi linee, le differenze da me individuate tra L’atomo inquieto e gli altri romanzi di Mimmo Gangemi
Qual è, allora, la continuità?
Senza dubbio quella stilistica, magnificamente ipotattica, capace di dare ampio respiro al pensiero che si dipana in modo armonioso, del tutto controcorrente rispetto alla maggior parte degli scritti attuali, il più delle volte miseramente paratattici, asfittici e poco incisivi. E c’è poi quella che io definisco “Ossisemia” vale a dire il segno veloce che deriva dal ricorso al verbo (assolutamente o relativamente) intransitivo in veste spesso transitiva che, annullando i lunghi giri delle perifrasi, condensa i concetti e rende al meglio il pensiero che l’Autore vuole esprimere.
Quelli grugniscono dolore” (Cap. 1);
Il dolore gli grinza la faccia” (Cap. 3);
E il padre gli infuria gli occhi addosso” (Cap. 4);
Hertha… sorride contentezza” (Cap. 7);
Non ha ancora imparato a camminarla, la gamba posticcia”(Cap. 10)
Mi accaniscono i ricordi” (Cap. 13);
Mi scrutava con cipiglio serio grattandosi i capelli e trastullandosi un legnetto di brughiera tra le labbra(Cap. 17);
Alla marina non avrei cosa fare. Né dove vivere, con i soldi che mi sono rimasti presto boccheggerei fame” (Cap.17).

Grazie, Maestro Gangemi.


GRF

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