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Costume e SocietàSpettacolo

La maledizione del bianco e del nero sulla “Montagna lucente” aspromontana


Edil Merici

Di Luisa Ranieri

Recentemente su Rai3 hanno trasmesso il film di Mimmo Calopresti Aspromonte: la terra degli ultimi ispirato al libro di Pietro Criaco Via dall’Aspromonte.
Prima della visione, grande attesa tra i calabresi perché, finalmente, si parla di loro e dei loro mai dimenticati paesi; dopo di essa, grandi apprezzamenti (perché finalmente rivedono qualcosa che è rimasto loro dentro nonostante le diaspore delle loro esistenze ) e forti critiche (perché notano una rappresentazione in cui non si ritrovano).
Io, che avevo visto il film a Milano al tempo della sua uscita nel 2019, avevo trasmesso le mie impressioni ai due autori in uno scritto che ora ripropongo su Mètis a proposito del tema Rapporto tra opera scritta e trasposizione filmica.
Questa non è certo la prima volta che un libro diventa film: i due mondi si sono spesso incontrati e, talvolta, anche scontrati perché il modo di rappresentare la realtà passa attraverso il filtro e le finalità di sensibilità differenti.
E allora, inoltriamoci su questa strada, partendo dai differenti titoli delle due opere, già dal primo impatto fortemente discrasici.
Aspromonte: la terra degli ultimi di Calopresti sembra portare nella sua espressione quasi biblica un marchio, nello stesso tempo vero e falso.
Nell’Africo di quegli anni, e anche nei paesi limitrofi, regnavano grande povertà e continue vessazioni da parte dello Stato che costringeva con le tasse gli abitanti a un “continuo pagare, pagare per tanto malvivere” come riscontrava il filantropo Umberto Zanotti Bianco, che in rappresentanza dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia percorreva quei territori per portare alle popolazioni gravemente indigenti medicine, viveri e, soprattutto, per aprire scuole e asili per i piccoli.
Se, dunque, guardiamo alla sola povertà economica dei luoghi, possiamo senz’altro definire quella dell’ Aspromonte come la terra degli ultimi per la mancanza di strade, di presidi medici, di scuole e di quant’altro possa rendere meno difficile la vita.
Il titolo del libro Via dall’Aspromonte ci parla, invece, di un momento particolare della vita di certe località aspromontane, quello, successivo alla disastrosa alluvione del 1951, dell’abbandono forzato, quasi una deportazione, da parte dei suoi abitanti verso la costa. Il che ha significato abbandono non solo delle case ma anche dei campi, degli animali e dei boschi nei quali e attraverso i quali si era espresso tutto il loro sapere e la loro cultura nonché la loro trasformazione da piccoli, seppur miseri, proprietari autonomi in nullatenenti totalmente dipendenti dalla carità altrui.
Le amministrazioni provinciali e anche governative, infatti, anziché provvedere al consolidamento del territorio, al risanamento degli ambienti abitativi e alla realizzazione di strutture viarie di raccordo tra i paesi dell’entroterra e quelli della marina, avevano deciso per l’abbandono di una montagna, quella Aspromontana, da sempre considerata Madre (Mana Ghe) dai suoi abitanti con disastrose conseguenze che, guarda caso, ci colpiscono in modo violento anche oggi come con gli incendi troppo facili da appiccare e difficili da estinguere perché non ci sono più i pastori, i saggi custodi di un tempo, a vegliare su di essa e i loro discendenti, diventati ormai cittadini di altri luoghi d’ Italia o dell’Estero, si sono scordati completamente degli insegnamenti degli antenati.
Dai titoli delle due opere, dunque, fortemente antitetici, non possono che nascere forzature che, a mio parere, non possono che svilire i pregi che l’opera filmica porta, comunque, in sé.
Ho trovato, infatti, efficace l’ambientazione sia degli esterni che degli interni; convincenti nella parlata, negli atteggiamenti e nei colori i protagonisti della vicenda e sviluppata in modo profondo la figura del Poeta (a cui Marcello Fonte ha dato una voce toccante) che, pur un po’ matto o soprattutto proprio per questo, diventa portatore di grandi verità esistenziali.
A parte, però, questi aspetti meritori va anche detto che il film di Calopresti è caduto nella comune e facile rappresentazione in bianco e nero della realtà aspromontana.
E mi spiego.
Perché per rappresentare il bisogno di cultura si è voluto fare ricorso alla bella ed infelice maestra comasca, del tutto assente nel romanzo?
Non bastava la determinazione del protagonista Peppe che spinge sempre il figlio Andrea ad andare a scuola e da lui si fa insegnare le poesie dei grandi classici italiani che sono oggetto persino di gare poetiche di memoria tra i giovani alunni del posto?
No, i portatori di cultura devono sempre venire da fuori, perché la nostra vale poco o niente.
E ancora: perché, a lasciare orfano il piccolo Andrea deve essere stato il tradimento della madre scappata di casa o, addirittura, rapita dal brigante   don Totò e non la morte in seguito a un’altra alluvione, come risulta dal romanzo?
E perché inventarsi la storia d’ amore di Peppe con la maestra forestiera dall’intimo in seta cancellando quella autenticamente sentita con la meno raffinata Rosa, la popolana del posto che, a un certo punto, lo salva addirittura dalla violenza del brigante?
Perché, soprattutto, fare dell’inesistente maestra comasca l’eroina che, sola, avrebbe avuto il coraggio di denunciare ai Carabinieri l’autore dell’attentato a Peppe come se la strada della giustizia dovesse essere insegnata ai calabresi sempre e solo da persone estranee al loro contesto sociale?
Perché metterle in bocca lezioni di legalità proprie dell’oggi ma impensabili nella realtà sociale degli anni ‘50 del secolo scorso, quando a opprimere i poveri aspromontani c’erano, come si evince dal romanzo stesso, non solo i briganti, ma anche le forze dell’ordine?
Perché rappresentare la vicenda solo in bianco e nero e saltare a piè pari l’umanità di don Totò che salva addirittura da morte certa il figlio dell’avversario Peppe caduto in un dirupo e colpito da una frana?
Perché dare una connotazione diversa alla sua paura che, con la costruzione della nuova strada, si potesse dare il via a quella ben più dolorosa dell’abbandono del territorio e della sua millenaria cultura da parte dei giovani?
Nessuno, guardando il film, riesce poi a capire il perché la compagna del bandito, Maria, regali la sua catenina al ragazzo mentre nel libro la cosa è spiegata in modo commovente e convincente.
Perché, soprattutto, saltare le pagine più liriche del romanzo, quelle appunto in cui il ragazzo, in un vero percorso di formazione, scopre l’altro aspetto di queste e di altre vicende?
Perché fare di Peppe l’assassino di Don Totò quando, a essere ferita dai Carabinieri è stata la compagna di lui, che se la carica in spalla sanguinante per portarla via e proteggerla?
Perché non dire che Andrea lo spaccapietre (che nel film viene confuso con Cosimo)è l’unico che, rimasto in paese, ha continuato a costruire un altro pezzetto di strada portando avanti, da solo, il sogno di un’intera collettività che era non quello di abbandonare il territorio ma di renderlo più stabile e funzionale?
Hanno lo stesso nome greco Andrea (“combattente valoroso”) sia lo spaccapietre, sia il figlio di Peppe che, diventato ingegnere, torna sul posto  con la licenza di portare a compimento l’opera e, con essa, quella che era stata l’utopia di un’intera comunità.
Alla luce di tutto questo, qual è il messaggio che viene fuori dal film e quale quello del libro?
Dal primo, la rappresentazione di un popolo da sempre e per sempre condannato (e auto-condannantesi) ad essere ultimo; del secondo quello di un popolo capace di coltivare l’Utopia anche se sul difficile percorso può perdere beni e affetti, come saggiamente fa notare lo spaccapietre al dodicenne Andrea, recalcitrante al pensiero di abbandonare il suo ambiente montano: «Tutti lasciano qualcosa, anche quando non partono. Anche se rimangono per tutta la vita nello stesso posto. L’alluvione si è portata via mia moglie e mio figlio…», ma non è stata capace di portargli via il Sogno e la determinazione a realizzarlo.

Foto: gazzettadelsud.it


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