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Costume e SocietàLetteratura

Il principio di offensività e i reati di pericolo

Le riflessioni del centro studi


Edil Merici

Di Emanuele Procopio

I reati a dolo specifico, a ben vedere, sono un elemento costitutivo dell’illecito idoneo ad ancorare il punto nevralgico della punibilità alla volontà di offendere, più che alla reale offesa. In quest’ambito risulta, però, problematica l’ipotesi in cui il dolo specifico assolve a una funzione squisitamente anticipatoria. In tal caso la punibilità a titolo di reato consumato è ancorata non alla effettiva realizzazione dell’offesa, ma a un momento prodromico caratterizzato dall’aver agito con una determinata finalità. Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, a rendere compatibili tali fattispecie con il principio di offensività sopperisce una loro interpretazione in chiave oggettiva, che tenga conto dell’effettiva idoneità della condotta a conseguire un determinato risultato. Ciò si afferma posto che in merito ai cosiddetti reati di pericolo presunto, equiparati da autorevole parte della dottrina ai reati di pericolo astratto è il legislatore, a monte, a incriminare una condotta che ritiene pericolosa, sicché al giudice che abbia già accertato gli altri elementi a fondamento della responsabilità penale non spetterebbe che il compito di accertare la condotta, dopodiché dovrebbe condannare sic et simpliciter l’imputato, senza la necessità di verificare in concreto il pericolo per il bene giuridico (rectius, interesse giuridico) tutelato dalla disposizione incriminatrice. Ma non è così! E, infatti, perché ciò si verifichi, la condotta dell’agente deve essere dotata di un minimo di offensività altrimenti il reato, comunque, non si perfeziona secondo quanto previsto dall’articolo 49, comma 2, del Codice Penale. In buona sostanza, nei reati di pericolo presunto il legislatore codifica norme di esperienza incriminando condotte che ordinariamente pongono in pericolo un interesse giuridico: tuttavia, potrebbe verificarsi la situazione in cui la condotta, pur essendo conforme al dato letterale della disposizione incriminatrice, non ponga concretamente in pericolo l’interesse giuridico. In altre parole, potrebbe verificarsi uno scarto tra l’apparente conformità alla norma incriminatrice e l’offesa in concreto, requisito necessario affinché si possa parlare a ragione di fatto tipico. Stando così le cose, la sussistenza dei reati di pericolo presunto nel nostro sistema costituzionale è stato posto fortemente in discussione: infatti, eventuali fattispecie incriminatrici che vincolassero il giudice a una sentenza di condanna nonostante la concreta carenza di offesa, vale a dire basate su un modello di presunzione assoluta, che limitassero l’apprezzamento del giudice non ammettendo prova contraria, violerebbero la presunzione di non colpevolezza, il principio di personalità della responsabilità penale, il diritto alla prova e il principio di offensività. Per questo motivo, l’unico modo per evitare di dichiarare incostituzionali tutte queste fattispecie, senza però convertire i reati di pericolo presunto in reati di pericolo concreto e rinunciare in questo modo alle esigenze politiche che ispirano un tal genere di anticipazione della tutela penale, sembra quello di considerare le presunzioni di pericolo come presunzioni relative, lasciando spazio, quindi, per una prova contraria: ben potrebbe il giudice condannare sulla base di una mera conformità della condotta con la lettera della disposizione incriminatrice, a patto che dalle risultanze processuali non emergano elementi tali da escludere l’offensività della condotta, e, dunque, la responsabilità dell’agente. In particolare, l’art. 190 del Codice di Procedura Penale prevede il diritto alla prova in capo alle parti; l’art.187 del CPP. precisa che sono “oggetto di prova i fatti che si riferiscono […] alla punibilità”. Posto che l’art. 49, c. 2, del CP disciplina la non punibilità in caso di inidoneità dell’azione (o inesistenza dell’oggetto), è possibile concludere che l’imputato abbia il diritto di produrre in dibattimento prove che dimostrino la non punibilità dovuta alla inidoneità dell’azione (o all’inesistenza dell’oggetto), naturalmente in accordo con le norme che disciplinano l’ammissione e la valutazione delle stesse. Da parte di alcuno si è ritenuto che il modello della presunzione relativa di pericolo rappresenti un’inversione dell’onere della prova: infatti non spetterebbe all’accusa provare la pericolosità della condotta, bensì, alla difesa, il compito di dimostrare la concreta mancanza di pericolo. In altre parole, nei reati di pericolo presunto non sarebbe la pericolosità della condotta a fondare la responsabilità del soggetto agente, bensì la concreta assenza di pericolo a escluderla: ai sensi dell’art. 49, c. 2, del CP in tema di reato impossibile, l’imputato sarebbe assolto per inidoneità dell’azione perché “il fatto non sussiste” (art. 530 del CPP). Anche in questo caso, tuttavia, i reati basati sul modello della presunzione relativa di pericolo non sembrano necessariamente in contrasto con i principi costituzionali, e ciò è confermato dal quantum probatorio richiesto con riferimento alla concreta assenza di pericolo: ancora una volta, alla luce della presunzione di non colpevolezza e del principio del ragionevole dubbio, è preferibile ritenere sufficiente un ragionevole dubbio sulla concreta offesa all’interesse giuridico per assolvere l’imputato. Tirando le somme, a patto che abbia accertato gli altri elementi a fondamento della responsabilità penale, il giudice riconoscerà l’offensività della condotta, a meno che dalle risultanze processuali non risultino elementi che insinuino almeno un ragionevole dubbio sulla concreta messa in pericolo dell’interesse giuridico protetto.

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 28/10/2022

Foto: ilsole24ore.com


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