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Costume e SocietàLetteratura

Il ritorno di Rocco: tra miracoli e disavventure

Storie d’altri tempi

Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Arrivò Rocco bestemmiando com’era solito fare: «Zio! Zio! Come ti senti? Mi hai fatto prendere uno spavento!»
Mastro Filippo, essendosi ripreso, lo guardò e disse: «Io ti ho fatto prendere uno spavento? Oggi lo devo considerare il giorno del doppio miracolo: mi sono salvato dal veleno della vipera e dal tuo modo di guidare!»
Rocco gesticolò con la mano, come se volesse dire che lo zio aveva proferito una stronzata.
Mastro Filippo continuò a parlare con voce malferma, lontana dalla naturale limpidezza.
Una voce li fece girare, chiedeva di chi aveva parcheggiato in quel modo l’ape rossa. Era il carabiniere di guardia al pronto soccorso.
Rocco lo guardò stizzito e guaì come un cane.
Il carabiniere gli fece notare che l’emergenza era finita, perciò doveva andare a parcheggiare l’automezzo nell’area destinata a parcheggio.
Dopo un breve battibecco, Rocco salì sull’Ape e partì sgommando, cosa che portò l’ape a impennarsi paurosamente. Il carabiniere di guardia rimase sorpreso da com’era partita l’Ape e per un pò restò senza parole.
Ripresosi da quella partenza da manicomio, esclamò: «Roba dell’altro mondo! Questo meriterebbe di essere internato alla neuro…»
Marco si avvicinò al carabiniere e gli disse: «Stia molto attento, quello non è giusto di testa.»
«Mi rendo perfettamente conto di che razza di pazzo si tratti.»«Tra un pò farà ritorno, per amor di Dio lo assecondi. Quando era bambino, è caduto dal letto e ha riportato un trauma cranico, rimanendo un mese intero in coma.»
«Merda!» esclamò il carabiniere.
Da lì a poco, in fondo alla via che portava al pronto soccorso, comparve Rocco; sul volto portava impresso il disappunto per come si era comportato il carabiniere.
Quando arrivò a pochi passi, il carabiniere, con tono amichevole, gli disse: «Passa di qua che fai prima.»
Nel sentire quelle parole, i lineamenti del volto di Rocco si normalizzarono.
Lungo il corridoio incrociarono Pina, che si fermò a guardare i due.
Rocco la guardò e le domandò se ci fosse qualcosa che non andava.
La donna si fermò e, guardando Marco, disse: «Mi ricordi qualcuno Sei dello stesso paese di mastro Filippo?»«Sì! Siamo entrambi dello stesso paese. Io mi chiamo Marco Fera e lui è Rocco Valpreda.»
La donna esitò un attimo, come se cercasse di ricordare.
Riguardò i due e disse: «Tu sei il figlio di Antonio Fera, mentre tu sei il figlio di Beatrice Spanò, la sorella di mastro Filippo.»
Rocco, lento di testa come sempre, la guardò sorpreso, giacché non si spiegava come facesse a conoscere il nome di sua madre.
«Non mi riconoscete?» disse Pina, rivolgendosi ai compaesani.
«Perché sei nostra compaesana?» domandò Rocco.«Abitavo all’inizio del paese con i miei genitori. Da quando sono morti, non sono più venuta al paese. La casa l’ho affittata alle guardie forestali. Comunque, un giorno di questi prendo la macchina e faccio una sortita con tutta la famiglia, così faccio vedere alle mie due figlie dove sono nata e cresciuta.»
Rocco la guardava incuriosito, alla fine non aveva capito una sola virgola. I due ripresero a camminare verso il reparto di medicina.
Marco guardò Rocco e gli domandò: «Hai capito chi è Pina?»«In verità, non ho capito un bel niente»«Suo padre era il mugnaio, aveva il mulino nella frazione del paese.»
«Quale frazione?»domandò Rocco.
A mettersi a disquisire di qualunque tema con lui, immancabilmente, si andava a finire in un nulla di fatto. Marco ammutolì; sapeva che Rocco era un soggetto ubbioso e quando si fissava, non la finiva più.
I ricordi lo portarono a quella mattina che era arrivato al cantiere con i capelli a ciuffo. Aveva la fisima di assomigliare a Little Tony, non solo nell’aspetto ma anche nella voce. Lo straordinario stato di esaltazione lo portò, per un intero anno, a cantare, dalla mattina alla sera, le canzoni dell’artista. La delirante passione verso il cantante lo portò persino a lambire la sindrome di Narcisio. Ovunque si trovasse la sua attenzione andava, sempre e comunque, rivolta a cercare una superficie riflettente per saziare il bisogno di sublimare la propria immagine.
Un giorno, in cantiere, andando a prendere un secchio d’acqua dalla cisterna, rimase come incantato dal riflesso della sua immagine. Si destò quando lo zio Filippo pronunciò una bestemmia che sembrò un tuono a ciel sereno. In cantiere, i compagni apprendisti, si rivolgevano a lui solo per sfotterlo.
Dopo cinque giorni di degenza, Mastro Filippo fu dimesso dall’ospedale, ma non volle che andasse il nipote a prenderlo: era vivo in lui il ricordo del rischio corso il giorno del ricovero. La moglie di mastro Filippo, a causa del mancato arrivo del pezzo di ricambio, non aveva potuto ritirare l’auto dal meccanico. Mastro Filippo preferì non chiamare il nipote per fare rientro a casa, bensì prendere l’autobus. Rocco poteva andare bene solo in due casi: o per estrema ratio o per incoscienza. A sostegno della pericolosità di Rocco, i compaesani, quando si presentava l’occasione, citavano una storia di un passaggio in auto che diede a un suo compare, un certo Antonio Borghese.

Foto: molfettaviva.it

Redazione

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