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Costume e SocietàLetteratura

Migranti di ieri e di oggi

Di Luisa Ranieri

Di giorno il Palazzo risuonava delle nostre piccole voci, di quelle più sostenute degli adulti, di quelle dei coloni che ci portavano il raccolto, di quelle dei vicini che venivano a chiedere qualche alimento che non avevano.Già, perché la gente intorno non se la passava molto bene: alcune case erano chiuse da tempo perché i loro proprietari erano emigrati in America o in Australia, in altre regnavano le malattie croniche, soprattutto dei bambini che, non ricevendo cibo a sufficienza e vivendo nella scarsa igiene, erano particolarmente cagionevoli di salute.
Ricordo un piccolo che non si reggeva in piedi per le continue ricadute dell’ernia inguinale, ’a guallera, che gli provocava lividi e dolorosi rigonfiamenti allo scroto: la madre lo teneva senza indumenti intimi davanti all’uscio di casa, forse sperando che l’aria fresca del giorno potesse procurargli quel sollievo che l’ambiente domestico non gli offriva. Avrebbe dovuto farlo operare da tempo, ma non si decideva perché era sola e senza il marito che non ho mai capito perché fosse costantemente assente, pur non essendo (credo) mai morto.
Forse era emigrato, come tutti (o quasi tutti) i capifamiglia del tempo in quella (e non solo in quella) zona della Calabria: le cave di caolino non davano più lavoro, le seterie avevano da tempo fermato i loro macchinari, i pascoli languivano e le campagne erano rimaste abbandonate alla più desolata incuria.
Invano il suono di alcuni richiami proveniente dal Comune spronava le persone al lavoro al mattino presto, dava loro il segnale del pranzo a mezzogiorno e poi, alle quattro del pomeriggio, le invitava a tornare al desco famigliare: non c’era ormai più nessuno che seguisse quei placidi metronomi della vita montana. Altri suoni in altri posti li avevano sostituiti nelle orecchie di coloro che se ne erano andati: il tagliente sibilo delle sirene delle fabbriche d’oltremare, i sordi rumori sotterranei delle miniere europee e sudamericane o quelli meccanici delle varie officine.
Se ne erano andati quasi tutti: sia i proprietari di piccoli appezzamenti come il Nonno che i dipendenti e i lavoratori in proprio, agricoltori o pastori che fossero; i primi per ritrovare le vestigia di un’abbondanza ormai definitivamente passata, i secondi per non morire letteralmente di fame.
Per gli abitanti della ruga di Puccio mia zia Concetta era come un angelo: li soccorreva con vivande e medicine e, soprattutto, con le buone parole del suo compassionevole cuore.
In una casupola di fronte al Palazzo viveva il trentenne Tonino con sua madre: piccolo e smilzo, somigliava nella postura e nell’atteggiamento allo Charlot di Charlie Chaplin. Unica differenza: gli occhi azzurrissimi e piccoli che sembravano chiedere al mondo spiegazioni per l’ingiustizia che vi regnava dentro.
Noi piccoli andavamo spesso a parlare con lui, rimanendo sempre toccati dalla semplicità dei suoi ragionamenti e dalla fragilità del suo essere.
Finché un giorno non ci lasciò esterrefatti con l’annuncio che presto se ne sarebbe andato nella ’Nghilterra a cercare lavoro per sé e una migliore sistemazione per la mamma. E partì poi effettivamente e non ne sapemmo più niente.
Come si sarà trovato in quella terra lontana, con quella lingua straniera, lui che neppure conosceva l’italiano? Avrà incontrato gente cattiva pronta ad approfittare di lui o gente buona che lo avrà apprezzato come tutti noi ci auguravamo?
La sua muta disperazione, i suoi azzurri occhi, la sua disarmante bontà mi sono rimasti così impressi nel cuore che ancora oggi li ricerco negli occhi dei moderni migranti e, oggi come allora, sento che mi si stringe il cuore per la desolazione.

Tratto da Sulla scacchiera della vita, pagine 41-43.

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