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Costume e SocietàLetteratura

La Vestale dei Morti

Di Luisa Ranieri

“Ah, chi bellu friscarellu chi ’nc’è ’ccà…” era la frase che diceva la Madre di Mara quando si lasciava cadere sulla panchina posta davanti al Camposanto di Locri, proprio nel punto in cui, sotto l’arco d’ingresso, la brezza del mare, unendosi al venticello proveniente dalla montagna, d’estate porgeva un fresco balsamo a ogni visitatore.
Sempre la stessa frase, sulla stessa panchina, ogni Agosto, ogni anno, alla stessa ora per l’appuntamento di punta della bella stagione: il raduno della famiglia dei vivi in movimento per il mondo con quella dei morti, che se ne stavano fermi e immobili nelle loro tombe a Locri: un’ abitudine nata in un momento in cui quasi tutti i congiunti si erano ritrovati in paese e continuata anche quando lo stuolo si era di un bel po’ assottigliato per via delle lontananze non sempre facili da colmare.
Trascorsa un’oretta su quella panchina, aspettando che arrivassero i convocati, ci si muoveva tutti insieme per andare a salutare gli amici e i parenti defunti e parlare con loro come se fossero ancora vivi.
E una volta che anche la madre, rapita dal turbine della morte terrena, se fu andata,  era rimasta solo lei, Mara, a ricoprire il ruolo di Vestale dei Morti,in quanto era  l’unica della sparpagliata famiglia a poter ritornare costantemente a Locri.
Da allora, dunque, a ogni ritorno, la prima cosa che fa è dirigersi al camposanto, soffermandosi prima sul posto in cui una volta c’era l’affollata panchina, divenuta da tempo solitaria, e cominciando poi il suo giro silenzioso tra le tombe.
Incurante delle cataste di fiori affastellati nei contenitori strapieni, perché sporadicamente svuotati nonché dei vialetti purtroppo, ancora e sempre, sconnessi del luogo, Mara non poteva e non può fare a meno di meditare sul legame che si instaura tra chi non c’è più e chi momentaneamente resta nella vita.
È proprio bello il posto dei Morti di Locri, con all’ingresso la statua dell’artista Panetta che mostra un giovane che, diventato ormai angelo con le ali, si protende verso la libertà del cielo mentre sotto, sulla tomba, appaiono incisi i versi della speranza:

E la morte, la morte che ci affanna
fa’ che sia come a sera
un pallido e tremante
scolorar delle cose e dei pensieri
che germini domani un nuovo giorno

È anche interessante il posto dei Morti di Locri, quasi un libro di Storia, che riproduce in tutto il carattere piuttosto disordinato della città, molto mediterraneo ma caldo a confronto con quello ordinatissimo ma freddo dei  prati inglesi o americani che raccolgono le ossa di chi non c’è più.
E vale per tutti l’epigrafe che appare all’esterno di una delle cappelle più imponenti

Terra mea, ultima vestis mea

visto che anche molti emigrati in giro per il mondo chiedono di farsi portare dai posti più disparati a trovare la pace eterna nella terra natia.
E sono tante le vicende istoriate sui marmi del camposanto, che mirano a riassumere in poche parole o foto l’essenza prevalente di mille vite poliedriche: da quella di una donna ritratta mentre intenta ricama o cuce su una piccola tela, a quella di una nonna definita dai nipoti come “la migliore al mondo”, al capitano di mare ritratto sulla propria imbarcazione con i capelli al vento, alla madre morta assulicata per la mancanza dei figli, costretti a lavorare lontano…
E, nel suo lontano Nord, Mara, essendo di recente venuta a sapere che tra le tombe del camposanto di Locri era stata vista pascolare una capra là capitata chissà come, non poté non rammentare la storia di morte che a lei era sempre sembrata la più straziante di tutte: quella di una famiglia di conoscenti emigrati negli anni ’60 del secolo scorso nella lontana Australia: tutti insieme, genitori e figli, a cui l’ingrata Italia e l’ancora più ingrata Locri non davano i giusti mezzi per campare dignitosamente e allora… via, il più lontano possibile… senza troppa nostalgia… attraverso l’Oceano… tutti insieme, cugini e anziani nonni compresi.
Un trapianto dei più radicali. Senza ritorno.
Ma con una notizia rimbalzata all’indietro a Locri attraverso le acque e i continenti e  che aveva lasciato tutti senza parole: Turi, il figlio 17enne della famigliola,  era morto all’improvviso, probabilmente d’infarto, per un problema al cuore mai diagnosticato e mai curato.
La madre di lui non si dava in alcun modo pace e ogni giorno in quell’immensa e desolata pianura australiana, sferzasse la pioggia, mulinasse il vento o picchiasse implacabile il sole, se ne andava a stare vicino alla tomba del figlio, a volte bevendosi  silenziosamente le lacrime, a volte picchiandosi violentemente il petto o graffiandosi a sangue le guance.
Inconsolabile e inconsolata.
Finché un pomeriggio, mentre se ne stava a guardare assorta la foto del giovinetto, si vide comparire accanto un ariete, uno di quelli che son soliti mettersi a brucare insieme alle pecore nei pascoli di là.
Bello, alto, possente e nero di pelo, ricevette carezze dalla donna per niente impaurita poiché in quell’altezza, in quella possanza e in quei colori le sembrava di rivedere quelli del suo amato Turi.
E si mise a portare ogni giorno, sia alla bestia che al figlio, una ciotola colma latte, delle fette di pane e delle manciate di erba fresca, riempiendo entrambi di quelle amorose attenzioni che l’animale mostrava di ricevere con gratitudine stando per tutto il tempo accoccolato accanto alla madre viva e al figlio morto, il quale, dal canto suo, adagiato per sempre nella tomba, l’andava a poco a poco trasformando da sterile contenitore di morte in salvifica fonte di vita.

Tratto da Racconti inediti, Marzo 2021

Redazione

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