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Costume e SocietàLetteratura

Il viaggio dei Partheni

Di Giuseppe Pellegrino

I partheni, o figli di vergini, (come abbiamo visto in precedenza) non furono mai considerati dei veri spartani, per cui per loro fu giocoforza trovare un’altra terra dove vivere. Abbiamo già detto che Sparta non ebbe colonie, ad eccezione di Taranto e, se si analizza la nascita della città, tanti elementi danno delle risposte inaspettate per la storia di Locri e delle sue istituzioni.
Si dice che nell’VIII secolo a.C., condotti dall’ecista Falanto (strana l’assonanza con Evanto), i partheni abbiano contribuito alla fondazione di Taranto. L’oracolo di Delfi aveva predetto che essi si sarebbero avventurati alla ricerca di una nuova terra che avrebbero individuato in un giorno di pioggia che scendeva da un cielo sereno e senza nuvole, bagnando il volto dell’ecista. Falanto si mise in viaggio, ma della terra promessa non vi era traccia. L’acqua era alla fine e il cibo pure. Si era fatto ecista di un popolo che aveva avuto fiducia in lui e dietro vi erano anche le famiglie. Esasperato, dopo una notte insonne, poco prima dell’alba si rannicchiò in un angolo della nave. Non era solo, ma con la non legittima compagna di letto. Analogamente i suoi compagni di viaggio. Stanco, si distese. La moglie lesse negli occhi la sua disperazione ed ebbe pietà del suo non legittimo compagno di letto, del figlio in grembo e di sé stessa; si distese vicina e poggiò la faccia su quella del marito a mo’ di conforto, ma ella stesa era disperata. Stanca per le traversie si mise a piangere a dirotto bagnando il volto del marito. L’uomo sentì l’umido; pensò alla pioggia; guardò il cielo che era limpido e sereno: erano le lacrime della moglie la pioggia che stava aspettando. Si alzò, guardò verso nord, e si spalancò ai suoi occhi la foce del fiume Taras, che avrebbe dato il nome alla città di Taranto.
Anche i pœartheni non richiamarono il nome di Sparta nella edificazione della nuova pòlis, ma non richiamarono neppure la loro origine dorica: partheni di Taras.
Se si legge il mito fuori dalla leggenda, emergono fatti crudi. Falanto non poteva essere un ecista per la semplice ragione che non conosceva i luoghi. Per come spiegato, la Pizia mandava l’ecista sui luoghi da colonizzare, non solo per l’individuazione degli spazi da occupare, ma anche per evitare gli inconvenienti dell’avventura; si aggiunga che la meta finale era raggiunta, per come raccontata la storia di Archia, in due fasi. Poiché tutti gli storici affermano che Taranto è una Colonia per come disposto dal Santuario di Delfi, le conclusioni sono due e spaventose: l’ecista era un soggetto diverso da Falanto; quella dei partheni a Taranto fu una vera e propria deportazione.
Se il nome di Falanto significa calvo (non vi è bisogno neppure di etimologia, perché φαλακρός, falakròs in greco significa calvo) e se era consuetudine degli spartani costringere gli schiavi a raparsi a zero la testa, la fondazione di Taranto fu fatta da spartani spuri in condizione di schiavitù. Gli spartiati consideravano i partheni la loro vergogna; già a Sparta vivevano appartati come degli appestati. Disfarsene senza violenza era un sistema da adottare. In concreto, una deportazione.
Aiuta, in tal senso, una delle due versioni date da Strabone sulla nascita di Taranto, su Falanto e i partheni. Dice il geografo greco che Antioco, scoppiata la guerra messenica, sostiene che “quelli che non avevano seguito l’esercito spartano furono ritenuti schiavi, e soprannominati Iloti e che i fanciulli nati durante le ostilità belliche furono chiamati partheni e giudicati privi di diritti civili”. Essi cospirarono contro le istituzioni e a guidarli vi era Falanto, che ordì una congiura.

Fu stabilito che, terminati gli agoni delle feste Giacinzie nell’Amyclaeon, quando Falanto si fosse infilato il berretto, avrebbero dovuto compiere l’assalto; i cittadini liberi erano riconoscibili dai capelli.

Foto: madeintaranto.org

Redazione

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