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Costume e Società

Oggi è un giorno come gli altri

Di Rosario Rocca

Guardate gli uomini e le donne del quadro, ci sono anche dei bambini. Vanno avanti verso qualcosa, decisi. Nei loro sguardi si possono cogliere i segni della dignità, e nei loro cuori una speranza di libertà. Dignità e libertà. Due parole che se non comminano insieme perdono il loro senso. Più o meno così ragionavo ieri a scuola con i miei ragazzi, mentre giravo per i banchi e, ad una ad uno, facevo osservare l’immagine fissa sullo schermo del mio smartphone. Uno di loro, a un certo punto, mi fa «È bellissimo, i personaggi sembrano veri». Certo, marciano lenti da oltre un secolo. Forse saranno stanchi, ho pensato, ma continuano la loro lotta. La nostra, dell’umanità. Non è facile parlare a dei bambini di quinta elementare del 1º Maggio, della dignità e dei diritti dei lavoratori. Per niente, soprattutto se si è consapevoli che i loro genitori sono inclusi nelle drammatiche statistiche dei disoccupati cronici del sud. Numeri da esibire nelle campagne elettorali. Anonimi, come la dignità di ognuna e di ognuno a queste latitudini. L’ora precedente avevamo approfondito come si esegue il calcolo delle percentuali, come una determinata quantità di animali, cose o persone si può rappresentare, rispetto a un totale indifferenziato, in termini percentuali. Avevano capito bene e ho pensato di ampliare un po’ il ragionamento con i numeri. Spesso, per ritrovare le loro parole, mi piace ricordarmi della mia infanzia. E così ho fatto, tornado ad una fotografia che custodisco della quinta elementare della scuola del mio paese nel lontano, ormai, 1988. La mia classe, la mia maestra, i miei compagni. Tracciando una linea verticale al centro della lavagna, ne abbiamo ricavato due parti uguali. In alto, sulla parte sinistra, ho scritto “5ª Elementare 1988”, mentre sull’altra “5ª Elementare 2021”. Ho elencato, improvvisando uno schema di classificazione, il lavoro di tutti i genitori della mia classe. Successivamente, con il loro aiuto, abbiamo fatto specularmente la stessa operazione in relazione alla loro classe. È emerso che la metà dei genitori del 1988 erano disoccupati, anzi disoccupate, visto che si trattava della totalità delle madri degli alunni; mentre i padri, con in testa le categorie dei mastri muratori, degli operai e degli artigiani, avevano tutti un lavoro stabile. Chiudevano la graduatoria tre impiegati, due del Comune e uno delle Poste, e un commerciante. Da un calcolo, come si dice, alla femminina, ho concluso che per mettere insieme i salari sicuri della mia classe del tempo oggi non sarebbero bastate le entrate dei genitori dell’intero plesso scolastico. Ho tenuto per me questa constatazione, anche per proteggere le loro speranze e la serenità che dovrebbe caratterizzare un universo infantile. Tanti classificavano l’impiego del genitore, padre o madre che fosse, come lavoro artigianale. Senza l’ingenuità e l’ottimismo infantile, la risposta dei più sarebbe stata «Mio padre, come mia madre, cerca di sbarcare il lunario». Li conosco bene i loro genitori, perché sono miei coetanei e vivono nel mio paese. E li ho immaginati tutti, come nel quadro del Quarto Stato, avanzare lenti. Fanno fatica. Tanta fatica, perché all’orizzonte non c’è più il sole dell’avvenire. Alle loro spalle ci sono ancora i loro genitori, i nonni dei loro figli. Avanzano strascicanti, con i loro ormai esigui risparmi, cercando di alleviare le pene del tempo dei loro figli e dei loro nipoti. Stanchi, anche loro, di una vita consumata da false illusioni. Oggi per quella moltitudine anonima è un giorno come gli altri, non è festa. Non lo sarà fino a quando la dignità di questa terra rimarrà sospesa.

Foto: Things aren’t as bad as they could be di Liu Xiaodong

Redazione

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