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Costume e SocietàLetteratura

Piatti tipici e spettacoli della natura

Stasi XXVI - Nel continuare le trattative con il funzionario jugoslavo, Francesco Rossi ha modo di familiarizzare con la Croazia di Tito e di conoscerne caratteristiche, abitudini e persino bellezze paesaggistiche. Un modo di scoprire una parte di mondo tanto affascinante quanto pericolosa…

Di Francesco Cesare Strangio

La Jugoslavia di Tito faceva parte dei cosiddetti paesi non allineati. Per certi versi quella posizione garantiva una certa indipendenza dalle due grandi potenze che si erano divise il mondo dopo la seconda guerra mondiale.
La sconfitta della Germania Nazista, a conseguenza della follia del Führer, portò le nazioni alla resa dei conti, disegnando un nuovo scacchiere basato sull’equilibrio del terrore.
Francesco Rossi e Stevo mangiarono lentamente e, durante il pasto, nei momenti di pausa, Stefica si sedeva al loro tavolo. Era un uso non comune, ma lo faceva garantita dall’autorità del funzionario. In quel caso, il compagno direttore del locale non aveva nulla da obiettare.
Terminato il pasto, i due si avviarono verso l’albergo; durante il percorso si fermarono a un bar per bere una grappa (Rakija) che producevano in Croazia. Lo scopo era sempre lo stesso: favorire la digestione.
Quando finirono di bere il liquore si salutarono prendendo appuntamento per l’ora di cena.
Rossi si recò in albergo per schiacciare un pisolino; dopo aver raggiunto il giusto e meritato riposo uscì e andò al bar dove trovò Stevo seduto a un tavolino con un dirigente del partito comunista della città.
Lo invitarono ad accomodarsi e gli offrirono un bicchierino di Rakija che mandò giù lentamente.
Per una questione di ospitalità, i due continuarono a chiacchierare non più in lingua Croata, ma in italiano.
Il linguaggio del dirigente del partito era rimarcato da un accento che tendeva al veneto, per il resto parlava in modo impeccabile.
Il politico disse di essere nato e cresciuto in Istria.
L’Istria è tutt’oggi legata per motivi storici, geografici e culturali al Friuli-Venezia Giulia e al Veneto. Tant’è che le due regioni prevedono dei capitolati di spesa nei propri bilanci a sostegno della minoranza italiana e per il mantenimento delle memorie storiche Istro-Venete.
Stevo disse a Rossi che l’Istriano era un cugino acquisito di Stefica.
Rossi annuì compiaciuto.
Per festeggiare la parentela con la ragazza, invitò entrambi a cena.
Invito che il cugino della donna accettò ben volentieri.
Quella sera mangiarono la Pašticada, un piatto di stufato di manzo cotto in salsa speciale. Spesso viene chiamato Dalmatinska pašticada perché nasce in Dalmazia. La sua preparazione è lunga e meticolosa; comprende la marinatura della carne in aceto, limone e rosmarino per almeno ventiquattro ore.
La carne di manzo marinata viene poi cotta per due ore di seguito con carote, chiodi di garofano, noce moscata, vino rosso e cubetti di prosciutto; di solito è servito con gnocchi o tagliatelle larghe, tutto rigorosamente accompagnato dal vino rosso Dingač.
Quella sera Rossi alzò il gomito come non era solito fare. Si rese conto che i fumi dell’alcol lo stavano per dominare. Avvedutosi della cosa, fece uno sforzo e passò dal vino all’acqua; cosa che non fece né il funzionario, né l’istriano. Se ne andarono dal locale quando l’orologio del campanile batté ventitré colpi, con l’impegno che alle sette del mattino si sarebbero ritrovati davanti all’albergo per andare a passare due giorni a Spalato.
Puntualmente, alle sette, Stevo, Stefica e una giovane ragazza dai capelli corvini si trovarono nel posto pattuito a bordo di una Dacia color blu.
Partirono e, lungo il cammino, Rossi ebbe modo di apprezzare il valore paesaggistico di quei luoghi. La cosa stupenda fu quando a un tratto, lungo la strada, si prestò ai loro occhi il magnifico quadro dell’Adriatico costellato da innumerevoli isole che luccicavano come le stelle del firmamento in una notte d’estate.
Rossi chiese a Stevo: «Gentilmente, ferma la macchina». Cosa che fece con immediatezza.
Gli occhi di Rossi fissavano quelle meraviglie, tanto da commuoversi a tal punto da rasentare la sindrome di Stendhal (o sindrome di Firenze).
Dopo quella pausa contemplativa, l’auto riprese la sua marcia percorrendo il lungo serpente di asfalto che li portava giù verso il mare.
Quella vista dall’alto rimase impressa nella mente dell’imprenditore come il marchio a fuoco sulla pelle delle giovenche. Non riusciva a cancellare quel quadro che la natura ha voluto indegnamente regalare al genere umano.
Il canto della Dacia echeggiava riflesso dalle pareti di basalto e indisturbato dall’assoluto silenzio che dominava quei luoghi. L’incontro di altri veicoli era un evento raro.
La valle canalizzava lo iodio trasportato dalla brezza che saliva riscaldata dal sole di quella mattina. Il finestrino abbassato faceva entrare un delicato vento che accarezzava i capelli di Stefica, agitandoli come dei soffici steli di lino.
La brezza, oltre allo iodio, sottoponeva le narici di Rossi al delicato bacio dei feromoni che delicatamente liberava la donna, attraendolo come il profumo dei fiori attira le api.
Si riteneva fortunato per come andavano le cose. La dicotomia lavoro svago aveva imboccato il canale giusto. L’accettazione del rischio, insito nella sua natura, lo aveva dotato di una marcia in più rispetto ai colleghi imprenditori. Ai più il solo pensiero di oltrepassare la cortina di ferro incuteva angoscia e paura.

Foto: sailsquare.net

Redazione

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