La legge è davvero un limite invalicabile per l’umanità?
Di Bruno Larosa
La dura condanna inflitta dal Tribunale di Locri a Mimmo Lucano – la cui figura, più che di un feroce criminale, richiama quella degli antichi filosofi meridionali che, poveri in canna ma ricchi della grandezza delle loro idee, fecero tremare i potenti, caricandosi addosso l’ignorante ostilità dei propri concittadini – non può esentarci dal formulare un giudizio anche senza conoscerne le motivazioni. Abbiamo un rospo nell’anima e non possiamo tenercelo dentro per il rispetto di una presunta regola morale. La severa e ingiusta decisione è lì, in attesa: minacciosa come un macigno che incide profondamente nella carne viva dei condannati e oltraggia la nostra mente che si ribella. Merita, dunque, e fin da subito, il giudizio critico dei cittadini e del Popolo, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Una critica che, come per tutti i giudizi, è necessariamente storica e quindi riguarda aspetti che superano la forma e gli approcci che il giudice può avere avuto rispetto ai due estremi ideali che riguardano una visione neo-positivista o post-moderna del diritto penale.
Qui non è importante sapere se il Giudice di Locri ha applicato rigorosamente la legge penale, tanto da rendere ingiusta la sua decisione, oppure si è spinto oltre la norma creandone una nuova di natura interpretativa, ma piuttosto è necessario chiedersi se e quando la legge penale può porsi quale limite invalicabile all’azione di uomini tesa a perseguire fini umanitari, in adempimento – come sta scritto nella nostra Costituzione – ai doveri solidaristici di natura sociale che gravano su ogni cittadino e specialmente sui rappresentanti delle istituzioni.
Questione antica, almeno quanto lo è il pensiero dell’uomo. Sofocle la poneva già nell’Antigone e però, più che sulle parole, riguardo l’ingiustizia di una legge che offende il senso di umanità e all’estremo sacrificio dell’eroina (sui quali si è scritto e detto molto), soffermo l’attenzione sulla tardiva consapevolezza di Creonte di aver ingiustamente preteso dalla nipote il formale rispetto della legge (che lui stesso aveva posto) e dunque sul fatto che, pur avvertita l’ingiustizia, gli abbia comunque dato corso. Un ritardo che ha causato la morte di Antigone, il sacrificio del figlio Emone e dell’amata moglie Euridice, segnando così la completa rovina del Re. Questo è un altro punto decisivo nella vicenda di Lucano. Lo è perché, a mio parere, il nostro pachidermico sistema penale (sia normativo sia soggettivo di accertamento) si sta muovendo sul bordo di un baratro, ormai pronto a finirci dentro al prossimo spintone.
Tornando però alla questione posta, mi pare evidente che, al fine di impedire che la legge penale sia un limite al senso di umanità e alla solidarietà verso gli altri, anche pedagogico e culturale, le fattispecie penali possano non essere adeguate perché esse sono state poste quando la sensibilità verso il prossimo era ai minimi storici (almeno dall’Unità d’Italia), anche rispetto ai Valori nuovi sacralizzati successivamente nella Carta Fondamentale del 1948. A questo aggiungo l’incapacità dell’interprete di conformare quelle norme ai nuovi principi sui quali si regge la Repubblica.
Non si tratta di far creare al giudice delle nuove norme interpretando le vecchie (è consentito farlo solo quando dalla norma si trae quello che già in essa esiste e non, invece, quando se ne crea una del tutto nuova), ma almeno di esercitare il tentativo di dare a quelle esistenti una lettura orientata alla Costituzione e ai mutati sentimenti popolari.
Farlo sarebbe un preciso dovere dei nostri giudici, quanto meno per non essere un giorno tacciati di aver commesso gravi e imperdonabili ingiustizie, così come avviene per certi giudici turchi, egiziani, e del nuovo corso afgano. Costoro osservano formalmente la legge, facendolo allo stesso modo di alcuni loro predecessori europei, fascisti e nazisti, mascherando quelle imperdonabili responsabilità nella volontà e nel rigore della legge.
Da noi questo non deve e non può più avvenire. Già questo codice, di stampo statalista e autoritario, in sé contiene quei meccanismi che non fanno perdere al diritto quella dimensione culturale che apre a soluzioni giuste, ciò nonostante l’apparente rigore formale delle singole fattispecie penali.
Si pensi alla norma che esclude la punibilità per il caso in cui la condotta è tenuta per l’adempimento di un dovere: quale dovere è più alto, in particolare per un uomo delle istituzioni, di quello di saper evitare la sofferenza, l’emarginazione, il dolore, lo sfruttamento di altri esseri umani che si trovano in uno stato di necessario bisogno. “Doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” declina – direi inutilmente – la nostra Costituzione.
Oppure si pensi a quella norma che rende non punibile chi ha commesso il fatto “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”. Regole che una giurisprudenza arida, conservatrice e oscurantista, interpreta in maniera restrittiva, escludendo l’applicazione ai casi come quelli di cui si sarebbe reso responsabile Mimmo Lucano.
Che dire poi dell’uso sapiente e corretto che dovrebbe farsi delle norme che governano il giudizio sulla determinazione della pena. Nel comminarla il giudice deve tener conto: del tempo e del luogo in cui i fatti sono avvenuti e delle modalità dell’azione; del pericolo cagionato da quelle condotte; dei motivi che hanno portato Lucano a delinquere e il suo carattere; dei suoi precedenti penali e della sua condotta prima e dopo quei fatti; delle sue condizioni di vita individuale, famigliare e sociale. E ancora, deve verificarsi l’esistenza di specifiche circostanze attenuanti della pena da applicare, in particolare quando l’azione si è tenuta per “motivi di particolare valore morale o sociale”.
Leggendo queste norme è davvero difficile resistere all’innato sentimento di giustizia che porta moltissimi a ribellarsi alla sentenza che ha condannato Mimmo Lucano, e anche per avergli inflitto la pena di tredici anni e due mesi di reclusione, per aver agito spinto da un irresistibile e universale sentimento di umanità. E a suo maggior merito va ascritto il fatto che all’epoca Lucano fosse il Sindaco di Riace. Un borgo, quello, dove da sempre il vento porta costante il lamento dei più deboli e dei derelitti e la cui gente, forse proprio per questo, è più sensibile di altre a cercare una soluzione a quelle gravose difficoltà.
Si levino allora alte le voci dei potenti, a che l’ingiustizia trascurata e mascherata non porti la rovina della giustizia penale e, con sé, il rispetto che le si deve, allo stesso modo di com’è avvenuto a causa della risoluzione e dell’indecisione avute da Creonte.
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