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Costume e Società

Filatelia tematica: gli antichi mestieri

Di Frana

Una tematica poco seguita, che potrebbe dare tante soddisfazione, è quella della raccolta di materiale filatelico riguardante mestieri e attività quasi del tutto scomparse: di seguito alcuni esempi

Il calzolaio

Il calzolaio, abile riparatore di scarpe, socolé o sabot, portava con se una cassetta, in legno, apribile di fronte e in alto, forse ricavata da qualche passeggino… una specie di trolley, oppure un piccolo rimorchio.
Entro questo armadietto nomade vi erano scatolette (tipo magnesia San Pellegrino) con diversi tipi di chiodi e di strisce di cuoio morbido di vari spessori, tutti elementi indispensabili. In esso aveva una specie di incudine (una forma in legno) per dare alle scarpe la giusta sagoma e usava pure la iuta e la gomma per completare il suo lavoro. Il calzolaio era un artigiano che realizzava/riparava scarpe, ciabatte e ogni altro tipo di calzatura. Il suo lavoro si è ridotto perlopiù a sostituire il tacco a una scarpa di un’anziana nonna che non può permettersi l’acquisto di una calzatura.
Questo mestiere è ormai un’esclusiva delle macchine: i Santi Patroni dei pochi calzolai rimasti sono Crispino e Crispiniano. 

L’arrotino

Era il tipico artigiano ambulante che esercitava il proprio mestiere tra cascine e villaggi, spostandosi con un particolare biciclo-caretto che poteva trasformarsi, secondo le necessità del titolare, in mezzo di trasporto oppure in laboratorio. Lo strano marchingegno, che serviva per affilare falcetti, forbici o i coltellini, possedeva una gran ruota di legno, ricoperta da un cerchione di ferro, sicuramente recuperato da qualche vecchio carro che, una volta giunto sul luogo ritenuto adatto a svolgere l’attività, era celermente ribaltato su se stesso per trasformarsi nell’indispensabile strumento di lavoro. La ruota era agganciata a un pedale, che aveva vari snodi, e quindi fissata con la cinghia di trasmissione del movimento alla mola. Su una parte sporgente del carretto, l’arrotino aveva predisposto una latta, zincata e rettangolare, un tempo contenente il bianco petrolio (quello raffinato, da lumi), piena d’acqua di pozzo che sgocciolava, sulla rotante mola, grazie a un piccolo e rudimentale rubinetto ricavato da un pezzetto di legno tenero. L’artigiano, pigiando sui pedali, imprimeva alla ruota, con un particolare e continuo movimento, costantemente ben ritmato e, poi, con abili gesti delle mani passava l’oggetto da affilare sulla girante mola fino a quando – il suo occhio non sbagliava mai – il filo della lama non fosse netto e tagliente come quello di un rasoio.
Giungeva due volte l’anno (sempre in primavera e in autunno) e segnalava la sua presenza soffiando una strana trombetta a forma di corno di posta. Portava uno strano cappello (che ricordava quello di Robin Hood) e i ragazzi ne erano affascinati anche perché la sera, dopo aver chiuso quella che lui definiva la bottega, era ospitato a passare la notte ove aveva esercitato il suo mestiere.

Lo spazzacamino

Usciva fuori dal camino come un piccolo babbo Natale con la testa nascosta da un berretto rosso che, in genere, gli copriva il capo e il collo, una specie di sacco che non aveva neppure aperture per gli occhi.
Era scomodo, ma si doveva indossare, prima di introdursi nella stretta canna fumaria, per proteggersi dalla caligine. Lo spazio per lavorare era molto stretto e la funzione veniva svolta da uomini esili e molto spesso da bambini che, salendo su per l’angusto fumaiolo, raspavano via la fuliggine maneggiando al buio – con la loro piccola manina – la spazzola di ferro arrugginita. Il caratteristico corredo da lavoro era modesto: la raspa (raschiatoio), la scopino e il riccio, un importante attrezzo composto di diverse lame, in ferro, disposte a raggiera, che servivano per raschiare l’interno delle ruvide cavità fumarie. Una robusta canna avente in cima il riccio, era usata solamente nei casi di cunicoli, molto stretti, che permettevano l’ingresso solo ai topi.
Ultimi, ma non meno importanti attrezzi , erano il sacco che serviva per raccogliere la fuliggine e la scala a mano (piccola scaletta alta circa 150 centimetri).
San Floriano era il protettore degli spazzacamini (ancor oggi, patrono dei Fumisti).

L’impagliatore

Nelle abitazioni di campagna avere sedie sfondate significava dover attendere, solitamente dopo la vendemmia, l’arrivo stagionale dell’impagliatore. Questo abile artigiano usava per impagliare delle semplici trecce ricavate dall’acorus calamus, una pianta economica che cresce nelle zone paludose. Questo vegetale, meglio conosciuto come acoro, dopo la raccolta era essiccato, conciato e tagliato a lunghe fettucce. Esse erano attorcigliate come delle cordicelle dalle abili mani delle famigliari dell’impagliatore e usate per riparare i piani sfasciati delle sedie. Tutto il lavoro di preparazione si svolgeva in casa durante il periodo invernale o quando pioveva e non era possibile lavorare nei campi.
L’impagliatore ambulante è scomparso da qualche tempo, ma di lui mi è rimasto un languido ricordo perché, pure lui, come tutti i lavoratori vaganti, non disdegnava di intrattenersi nelle varie abitazioni dove gli veniva offerto qualcosa.

Il maniscalco

Per i bambini del passato era l’uomo che metteva le scarpe alle mucche. Personaggio indispensabile nei villaggi di un tempo, chiamato anche il feracavallo, il maniscalco era una persona sempre disponibile quando si doveva intervenire per ferrare gli animali da traino e l’esperto artigiano si occupava pure della salute delle loro estremità incaricandosi anche di piccoli interventi di chirurgia.Veniva pure detto forgiairo perché fabbricava picconi, zappe, roncole, falcetti, vomeri d’aratro e altri attrezzi necessari ai contadini e sapeva riparare qualsiasi tipo di strumento agricolo. Preparava oggetti come cremagliere, pinze, pale per la brace, coltelli da macellaio e realizzava i cerchi di ferro necessari ai carradori, e quelli, differenti ma essenziali, per la costruzione di barili per il bottaio.

La ricamatrice

Era un lavoro che spesso si faceva in equipe, in famiglia con la madre la nonna le zie che portavano avanti la tradizione e insegnavano l’arte del ricamo alle figlie più giovani con i vari punto croce e punto erba e i loro pregevoli ricami (fazzoletti, tovaglie, asciugamano o parti di abito da sposa o da festa) venivano venduti a casa o nei mercati: erano delle vere e proprie opere d’arte.

Redazione

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