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Costume e SocietàLetteratura

Omar

I racconti della buonanotte III

Di Bruno Siciliano

⚠️ ATTENZIONE!
I contenuti che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Mi chiamo Omar, mi appiopparono questo nome alla nascita, forse mia madre, innamorata perdutamente dell’attore del dottor Zivago, mentre mio padre acconsentì, semplicemente, per accontentarla.
L’accontentava in tutto, quel vigliacco.
Voleva la pace in famiglia, come diceva sempre, forse perché non riusciva a sostenere a lungo una litigata con sua moglie e alla fine di ogni litigio le concedeva qualunque cosa, ammettendo, così, la propria debolezza.
Adesso abito alla fine del paese, ma da qualche tempo sono venuto a dimorare in questa bella casa del cinquecento, tre piani suddivisi in circa cinquecento metri quadrati di abitazione e dal piano nobile si vede pure il mare laggiù, lontano lontano, azzurro e calmo nella sua orrida bellezza.
Sarebbe piaciuta a mia madre, questa casa, con tutte queste finestre e i soffitti con le travi a vista.
Sicuramente lei l’avrebbe riempita di tende e centrini e trine, come si fa con le casette delle bambole.
Che schifo.
Non lavoro più.
Sono ormai vent’anni che non lo faccio, da quando abito là, fuori paese.
Non ho niente da fare tutto il giorno, stavo per dire: tutto il santo giorno, ma i miei giorni non hanno nulla di santo, per cui è meglio evitare.
Vivo da solo.
E la cosa mi piace oltremodo, perché così sono libero di svolgere le mie attività, senza dare spiegazioni e specialmente senza nessuno tra le palle.
Dicono che a quelli come me dia fastidio la luce del sole. Non c’è nulla di più falso, anzi, a me piace il sole, guardarlo e sputargli in faccia.
Certo, la notte è più bella e si confà di più alle mie attività; mi è sempre piaciuta la notte, ovattata, discreta e sordidamente pura.
Anche ai miei amici piace di più, si nascondono facilmente, si confondono con le cose tra le ombre e i muri delle case, è bella la notte, ti regala sempre pessimi consigli.
Non posso dire di non avere qualche problema, il non avere più un cervello fresco e in attività mi fa dimenticare spesso le cose. Ho abitato in quel posto fuori paese per oltre vent’anni e questo mi ha reso, per così dire, un po stantio, come il mio odore, che spesso tradisce la mia presenza, ma come in  tutte le cose, basta abituarsi.
Proprio l’altro ieri ho trovato un cadavere appeso al lampadario del grande salone in stile, con le viscere sparse sul pavimento. Giuro che non ricordo come ci sia finito lì, ma evidentemente solo io ce lo posso aver messo.
Le mosche passeggiano ancora e banchettano tra la milza e lo stomaco del povero malcapitato mentre i vermi zampillano immacolati tra le orbite putride e le narici. Vorrei che anche voi lo vedeste.
È proprio uno spettacolo, un capolavoro.
Beh, ho imparato a uccidere che ancora non andavo al Liceo, avevo undici-dodici anni e mi davano tutti fastidio, un fastidio insopportabile, mortale direi, ho sempre avuto, comunque il dono dello humor.
Era un venerdì, il venerdì 17, era una splendida mattinata di primavera.
L’aria era calma e calda e ferma, non c’era un alito di vento e due farfalle bianche si rincorrevano nella mia stanza. Io ero sdraiato sul letto, non avevo voglia di niente, quella mattina, e avevo tirato fuori dal mio zaino uno spinello che mi aveva dato Ben, quel maledetto; ci scambiavamo sempre favori e qualche giorno prima mi aveva fatto quel regalo.
Avevo fatto giusto un paio di tiri quando mia madre entrò d’improvviso nella mia stanza, senza neanche bussare, si accorse subito che quella che fumavo non era una delle mie solite Muratti e iniziò a farmi casino della madonna, un bordello indiavolato che non finiva più e io me ne restai fermo e calmo, senza dire niente. Poi, non contenta, lo riferì anche a mio padre che venne nella mia camera e cominciò a picchiarmi e continuò a picchiare e a picchiare con tutto quello che gli veniva in mano, cercai scampo in cucina e, non so come, mi trovai in mano un coltello e anch’io presi a colpire. E colpii una, due, tre e quattro volte, dove capitava, in pancia, nel petto, nel collo, finché non lo vidi aggrapparsi alla tenda della finestra e cadere giù mentre mia madre strillava come una gallina. Riuscì a ottenere calma e attenzione solo quando alla mia vecchia riservai una padellata in testa che la stese lunga lunga per terra.
Me li guardai tutti e due a lungo, con attenzione, sembravano due fantocci, stesi sul pavimento, l’uno accanto all’altro. Non so come, ma trovai la forza di trasportarli sul letto.
Poi andai nel garage, presi una tanica di benzina e la sparsi su tutto quello che mi capitava a tiro, alla fine la svuotai sui due corpi stesi sul letto, presi il mio zippo e diedi fuoco.
Le fiamme si svilupparono violente, crepitando, mordendo e distruggendo tutto, poi uscii di casa e, dal giardino, mi godetti lo spettacolo.
Avevo fatto la mia prima impresa da giustiziere e da quel giorno non ho più smesso. Il successivo è stato Don Filippo. L’ho crocefisso ai piedi dell’altare maggiore e poi gli ho conficcato un paletto proprio in mezzo al cuore, così s’è tolto la voglia di importunare le ragazzine del catechismo.
Poi ho continuato con Saverio, che aveva preso l’abitudine di picchiare quella povera disgraziata della moglie così, senza alcuna ragione. Gli ho dato una bella botta in testa e l’ho legato dietro al suo furgone, ho messo in moto e mi sono fatto un largo giro per tutta la campagna, poi mi sono fermato davanti a casa sua ed ho contemplato quello che rimaneva del suo corpo sbattuto e maciullato.
Perché faccio tutto questo?
Perché sono un giustiziere. Nessuno mi vede ma io ci sono. Mi hanno sparato nel corso di una rapina e me ne sono andato a morire nella boscaglia fuori paese. Sarà stato perché il mio corpo non è stato mai sepolto o chissà perché, ma io continuo a vagare da quella notte per il paese e vi posso vedere tutti, uno per uno.
Scruto le vostre azioni, i vostri volti, le vostre mani e le vostre intenzioni, per cui vi dico: state attenti. Non c’è Dio, non c’è giustizia, ci sono io e sono dietro di voi.
Posso saltare fuori da un minuto all’altro e giustiziarvi tutti a modo mio!
Per cui, quando state facendo qualcosa di losco e sentite un leggero puzzo di rancido, sono io e vi sto per colpire. E ci sarò sempre, per l’eternità.
State attenti!

Foto: significatosogni.com

Redazione

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