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Costume e Società

Super-eroi… ma non troppo

Di Mario Staglianò

Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito alla riscoperta e al rilancio dei supereroi. I film con protagonisti i supereroi hanno conquistato le prime posizioni al box office ogni anno, spesso con più titoli nelle classifiche delle pellicole più viste. Peculiare è l’incredibile successo del Marvel Cinematic Universe, cioè un franchise creato dai Marvel Studios e voluto in particolare da Kevin Feige. Oggettivamente un progetto ambiziosissimo: creare un universo narrativo coerente e transmediale in cui ogni film (e, ora, ogni serie tv) diventano un tassello di una narrazione più vasta. Tra il 2008 (Iron Man) e oggi (Eternals e l’attesissimo Spider-Man: No Way Home) si contano 27 film Marvel per quello che è diventato il franchise mediatico di maggior successo della storia, con oltre 23 miliardi di dollari ricavati solo dai titoli cinematografici. In questo momento, c’è almeno una dozzina di titoli dell’Universo Marvel in varie fasi produttive. Quest’anno c’è stato il debutto dei primi progetti seriali prodotti direttamente dai Marvel Studios: WandaVision, The Falcon and the Winter Soldier, Loki e la prossima Hawkeye. Prodotti tutt’altro che privi di importanza. Anzi.
Da che mondo e mondo e dalle prime forme di racconto mitico, gli eroi ci sono sempre stati (e anche i supereroi), persone con tratti sovrumani che accettano missioni impossibili per il bene dell’umanità o, comunque, degli altri. Pensiamo nel mondo greco a Ercole con le sue dodici fatiche, perfetto esempio di supereroismo sovrannaturale, o ad Achille con il racconto della sua vita sovrumana, sospesa tra status mortale e divino. Oppure a Odisseo polymetis, cioè l’uomo dal molteplice ingegno, l’uomo forse più intelligente del suo tempo mitico, autore di un viaggio pieno di avventure durato dieci anni. O, per andare ancora più indietro nel tempo e a mondi più lontani dal nostro, nel Medio Oriente di oggi o la Mesopotamia di ieri, pensiamo a Gilgamesh. La sua è una storia che oggi, da un punto di vista popolare, non molti conoscono, eppure è la più antica storia che ci sia stata tramandata. Non solo: sembra una storia di supereroi, ma di oltre 4.000 anni fa, con combattimenti che scuotono la terra e distruggono città, mostri semidivini che gli eroi devono abbattere e l’impossibile ricerca dell’immortalità. Il tutto raccontato su tavolette, un po’ come un fumetto di oggi.
Il mito, ovviamente, ha sempre sublimato la complessità della realtà e la difficoltà di interpretarla in una dimensione narrativa tranquillamente metafisica in cui i confini tra umano e divino, tra mondo fisico e mondo soprannaturale, tra vero e falso si mescolano costantemente. Però l’inflazione attuale si accompagna a una radicalizzazione di questa semplificazione, fino ad arrivare all’infantilizzazione. La profondità rivelatrice del mito cede il passo a una ricerca dell’intrattenimento più semplice e fracassona possibile, quasi a pensare che il pubblico sia in grado di apprezzare solo questo modo di codificare la realtà e le sue problematiche morali.
Con ciò non si vuole dire che i supereroi di oggi siano peggio di quelli di ottanta o sessanta o quarant’anni fa. Anzi. I supereroi di ieri vivevano una dimensione particolarmente risibile, almeno dal punto di vista estetico, che però ne rivelava con una onestà forse non del tutto involontaria un aspetto importante: nascevano per i bambini. La semplicità, la puerilità appunto dei tratti, dei costumi, dell’estetica, dell’azione, riflettevano per l’appunto questo.
I supereroi moderni nascono a ridosso della Seconda Guerra Mondiale (il primo albo con Superman è del giugno 1938). Proprio l’apocalisse bellica ne alimenta la popolarità: il pubblico cerca, comprensibilmente, racconti semplici di vittorie del bene sul male che possano consolare o far parzialmente dimenticare gli orrori del momento. Gli autori creano supereroi che combattono le forze dell’Asse introducendone alcuni ispirati ai temi patriottici tra i quali il Capitan America della Marvel che, in più di un’occasione e non a caso, salva il mondo dalla minaccia nazista. I supereroi nascono per semplificare la complessità della realtà, in un altro tempo, in un altro mondo che conosce una profonda crisi di valori e identitaria.
Non ci sorprende allora notare che dopo la Seconda Guerra Mondiale i supereroi perdano popolarità. Per una quindicina d’anni i supereroi finiscono un po’ nel dimenticatoio. Sembra che non abbiano più molto da dire. Tornano all’inizio degli effervescenti e problematici anni ‘60 quando, nel 1961, Stan Lee, Jack Kirby e Steve Ditko lanciano una nuova linea di fumetti con il nome Marvel Comics iniziando con I Fantastici Quattro. Questi fumetti di supereroi sottolineano i conflitti personali e dedicano molto spazio allo sviluppo del personaggio, alla sua evoluzione, alla sua psicologia, alla sua storia. Un’innovazione ovviamente molto importante e che ha fatto, non a caso, di Stan Lee l’autore di fumetti più influente. La Cosa (membro dei Fantastici Quattro), Spider-Man, Hulk, gli X-Men hanno questo in comune: sono supereroi tormentati, che lottano per l’accettazione o il controllo dei propri poteri.
Negli anni ’80 gli accenti si fanno profondamente dark, le atmosfere gotiche e gli eroi sono chiamati a confrontarsi apertamente con le proprie ombre. Un movimento convergente tra fumetti, romanzi, elaborazioni filmiche che culminerà, in termini popolari, nel Batman di Tim Burton del 1989. In quegli anni anche la Marvel Comics introduce alcuni popolari antieroi tra cui Punisher, un ex-soldato (reduce del Vietnam) la cui famiglia venne spietatamente uccisa dalla mafia, Wolverine, un nuovo, violento e cinico mutante e la versione crepuscolare di Devil realizzata da Frank Miller, che aveva già rivitalizzato il mito di Batman. Questi personaggi erano fortemente tormentati, anzi, ossessionati: la strage alla base della follia di Frank Castle (The Punisher), la lotta contro i propri istinti animali per Wolverine, una difficile infanzia per Devil.
Ma è Alan Moore, prima con la serie Miracleman e poi con la maxiserie Watchmen (1986), a inventare un nuovo supereroe, demolendo l’idea che da grandi poteri derivino grandi responsabilità. I supereroi di Watchmen sono emozionalmente insoddisfatti, psicologicamente introversi, spesso sociopatici. Affrontano, per la prima volta in maniera diretta, le conseguenze catastrofiche che la propria esistenza porta sulla gente comune. Watchmen diventerà un film di Zack Snyder nel 2009 e, poi ,nel 2019, l’omonima miniserie che in realtà rappresenta un originale seguito del fumetto. Un senso di oppressione anima il fumetto e poi il film: la speranza è bandita, il sogno americano si è realizzato a rovescio, come una parodia feroce. I supereroi sono vigilanti spettrali o veri psicopatici.
Accanto a Watchmen l’altra opera che contribuì alla reinterpretazione in chiave più realistica, complessa e dark del supereroe (e di Batman in particolare) fu Il ritorno del Cavaliere Oscuro(1985-1986), scritta e illustrata da Frank Miller. Una delle ispirazioni del Dark Knight del trionfo di critica e pubblico firmato da Christopher Nolan alcuni decenni dopo al cinema. Miller reinventa un Bruce Wayne invecchiato e deluso, un alienato che si lascia dominare dalla sua rabbia interiore, ossessionato dall’assassino dei suoi genitori.
Tendenze, quelle di Moore e Miller, che aprono agli sviluppi registrati nel nuovo millennio: quello di supereroi che sempre più spesso attingono alla dimensione dell’antieroe o che, addirittura, sfiorano (o abbracciano) quella del villain, l’antagonista, il cattivo. Una distinzione che è importante fare è quella tra antieroi e antagonisti. Per strane ragioni i due termini sono oggi spesso usati in modo intercambiabile. O, anche, antieroe viene usato per designare l’avversario. Quando invece la definizione di antieroe, in letteratura, è quella di un personaggio protagonista cui mancano alcune delle tradizionali qualità dell’eroe: altruismo, idealismo, coraggio, nobiltà e forza d’animo, bontà. Oppure, un personaggio che dimostra addirittura tratti opposti a questi. Ma non è l’antagonista e non dovrebbe mai essere confuso con il villain, il nemico, il malvagio.
È una figura sempre più importante e popolare anche perché, nella nostra epoca culturalmente post-moderna, è sempre più difficile partorire personaggi eroici in senso pieno e tradizionale, che non siano appunto quelli ammantati di poteri sovrumani: i super-eroi.
In questa situazione di carenza, quindi, sempre più spesso gli antieroi diventano protagonisti pieni, e assolutamente amati, di opere celebri, largamente popolari e influenti. Basta, a confermarlo, una rapida carrellata di personaggi altamente iconici degli ultimi 30 anni di televisione che possiamo perfettamente inquadrare come antieroi. Popolari e amati e, ovviamente, non super-eroici: Homer Simpson, Tony Soprano, i protagonisti di serie come The Shield, Dexter, Mad Men, Breaking Bad, True Detective.
Fino ad arrivare al cartone occidentale più importante e interessante del nostro tempo, Rick and Morty il cui protagonista rappresenta quasi un passaggio perfetto verso il mondo dei supereroi perché, di fatto, Rick Sanchez – l’uomo più intelligente dell’universo, un inventore geniale e pazzo che stravolge l’adolescenza del nipote con le sue allucinanti avventure nello spazio e nel multiverso – è qualcosa più di un antieroe: è un supereroe di carattere non sovrannaturale, un po’ come Batman. Ma, come vedremo tra un attimo, un supereroe decisamente assai più dark del pur cupo uomo pipistrello.
La nuova appropriazione televisiva dell’universo supereroico sta quindi cambiando le cose? Forse sì. Forse sta aiutando a rendere più complessa, matura, adulta una materia fin qui gestita dal cinema in modo prevalentemente infantile. Lo avevamo visto con Legion, non fortunatissima serie di qualche anno fa, che al centro aveva un supereroe schizofrenico. E, in maniera diversa, con serie antieroiche come Jessica Jones o The Punisher.
Ma pensiamo ancora di più a Watchmen, la miniserie di Lindelof del 2019. Non un reboot o un remake ma, addirittura, il seguito dei fumetti di Alan Moore. Una miniserie che innova profondamente il genere facendogli affrontare di petto uno dei temi più intricati del mondo americano: quello del razzismo, presente e storico. La serie si apre rievocando il massacro di Tulsa, l’atroce vicenda reale di una fiorente e industriosa comunità nera che venne massacrata e distrutta dalla punizione dei bianchi. Una storia che era stata anche popolarmente dimenticata fino a questa serie, che la colloca a fatto fondativo del suo racconto di un’America profonda e contorta e terribilmente malata, scossa dalla violenza terroristica dei suprematisti bianchi, sviluppando una narrazione complessa dal punto di vista dell’intreccio dei piani temporali e delle idee.
Pensiamo poi a The Boys, di cui abbiamo già visto due stagioni. Il racconto di un mondo in cui i supereroi sono un brand globale governato da una multinazionale con logiche di marketing e comunicazione. Idolatrati dalle folle, i supereroi sono quasi tutti malvagi e corrotti, ubriachi di potere, totalmente disumani: sono la minaccia da cui i Boys del titolo, i protagonisti, un gruppo di ribelli in parte ammanicati con la CIA, cercano di difendere il mondo, dovendo combattere in clandestinità e ricorrere a tattiche terroristiche. Pensiamo ovviamente a WandaVision. Con il suo racconto oltraggiosamente e magnificamente complesso, che inizia con Wanda Maximoff e Vision, supereroi del MCU, che si trovano dopo i fatti di Endgame misteriosamente catapultati in una realtà in bianco e nero che sembra funzionare come una sit-com del passato. E che diventa poi il racconto di una psiche intrappolata da se stessa, in un mondo che è stato plasmato seguendo i cliché di alcuni decenni di televisione e di show a tema famigliare, in una geniale e struggente parodia della dimensione domestica che all’eroe è dolorosamente preclusa.
Da ultimo guardiamo Loki, grandissimo successo appena consumatosi. Pensiamo, al di là delle sue implicazioni e della sua rilevanza narrativa per il MCU, a come abbraccia il surrealismo, il bizzarro, il nonsense, in questo avvicinandosi a Rick and Morty. Non casualmente, visto che il creatore di Loki è appunto uno degli autori di Rick and Morty. Basta una scena su tutte a rappresentare l’atipicità di questa serie rispetto al suo universo canonico di riferimento: quella in cui il dio dell’inganno si trova a doversi confrontare con una nutrita schiera di sue varianti, tra cui un Loki vecchio, un Loki bambino, e quello che è diventato il beniamino del pubblico, un Loki coccodrillo. WandaVision e Loki segnalano un nuovo interesse del MCU ad aprirsi verso elementi anomali per il franchise, di complessità anche morale dei personaggi.
Wanda e Loki sono figure complesse in termini morali perché, se da un lato, ci piacciono e ci sono sempre piaciuti e hanno già avuto modo di redimersi in altre precedenti occasioni per i peccati e i crimini che avevano commesso, dall’altro sembrano ineludibilmente incapaci di tenere a freno la propria natura manipolatrice. Una natura che li porta a vivere i propri poteri come strumento per sottrarsi al vaglio degli altri, o per riparare le ingiustizie vissute disinteressandosi delle conseguenze sul resto del mondo. Una cosa particolarmente vera per Wanda e per la prigione mentale che ha costruito nella cittadina in cui si è rinchiusa. È, il nostro, il tempo della tv complessa. Ed è il tempo di una nuova forma di supereroe: il supereroe dark. Un supereroe che ha vissuto l’influenza della cultura postmoderna e del suo relativismo morale, della difficoltà o impossibilità di definire bene e male. Figlio della crescente popolarità dell’antieroe e, quindi, in dialogo con la propria ombra. Capace addirittura di sconfinare tranquillamente dalle parti del villain, abbattendo così l’ultima barriera tra buoni e cattivi.
Tre serie in questo senso toccano vertici di complessità facendoci familiarizzare con il volto di supereroi che hanno compiutamente abbracciato la propria ombra. Non come uno strumento per farsi più forti e spaventare i nemici, come è anche nella tradizione dei vari Batman, ma perché l’eccesso del proprio potere li ha portati a non poter più tornare a una dimensione normale. Sono tre storie assai diverse ma accomunate dalla scoperta, da parte dei supereroi, del costo di un potere troppo grande e di come quel potere abbia finito per condannarli a una solitudine straziante. È un’idea struggente: quando il supereroe diventa la propria ombra, quel potere – un tempo strumento per fare il bene del mondo – diventa una condanna esiziale. La condanna a una prigione di incomunicabilità, all’impossibilità di qualsiasi condivisione, all’uscita dalla comunità. È Wanda Maximoff che in WandaVision ha costruito una realtà chiusa, di cui può essere demiurga e regina, ma al prezzo di escludere fisicamente tutti gli altri, tranne coloro che diventano ombre del suo spettacolo. È Ozymandias, l’uomo più intelligente del mondo di Watchmen, la serie, che vive in esilio nel micromondo che ha trasformato nel proprio teatro, nel proprio regno, nel proprio supplizio permanente fatto delle stesse storie messe in scena infinite volte, in una ripetizione che non ha mai fine. È Rick Sanchez in Rick and Morty, l’uomo più intelligente dell’universo, l’inventore pazzo e alcolizzato, il supereroe che cerca l’oblio, fino a provare in una puntata – in una vetta di disperazione del tutto anomala per il genere e il medium – a uccidersi con un raggio disintegratore nel proprio laboratorio-garage. Scampando alla propria autodistruzione solo perché, ubriaco come al solito, collassa all’ultimo momento evitando il raggio mortale. Perché – questa è la lezione – il proprio dono è anche la propria croce. Ed essere l’uomo più intelligente del mondo vuol dire anche, forse, essere il più infelice.

Foto: tomshw.it

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