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Costume e SocietàLetteratura

La porta

I racconti della buonanotte XVIII

Di Bruno Siciliano

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Scorri in fondo all’articolo per ascoltare il racconto che segue letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

Sapeva che c’era un muro nel vecchio castello. Non l’aveva letto da nessuna parte, nessuno glielo aveva mai detto, lui lo sapeva e basta. Era venuto al mondo con questo pensiero nella sua mente.
C’era un muro nel vecchio castello e una porta in questo muro. Una vecchia porta ormai tarlata che nessuno aveva aperto mai, lui la vedeva nella sua mente nelle lunghe notti senza sogni, ormai ne conosceva tutte le sue fibre e tutti i suoi segreti e un giorno decise di cercarla anche se non sapeva dove lo avrebbe condotto. Non era una leggenda, perché lui sapeva che era tutto vero.
Correva l’anno 1500. Lui non aveva neanche vent’anni, era figlio di un fabbro che aveva bottega alla cittadella militare, all’entrata della Città, subito dopo la prima porta urbica.
Da più di cento anni il castello era disabitato e quasi tutto in rovina e lui s’incamminò verso il vecchio maniero. Affrontò la lunga salita che portava al punto più alto della rocca dove esso sorgeva. Una procace ragazza dai lunghi capelli neri lo fermò nel suo cammino, era bella e dalla generosa scollatura della veste si intravedeva il seno turgido e bianco. Lei lo prese per mano e aprì la porta della sua casa per farlo entrare, ma lui si divincolò con un sorriso e rifiutò cortesemente l’invito della ragazza proseguendo per la sua strada. Costeggiò i negozi che vendevano ogni cosa ma ignorò le lusinghe dei bottegai e proseguì ancora. All’angolo dell’antica piazza due giovinastri sbarrarono il suo cammino, decisi a depredarlo dei pochi soldi che portava nel sacchetto legato alla sua cintola, ma mettendo in pratica l’arte della lotta che il padre gli aveva insegnato sin da quando era piccolo, riuscì a renderli inoffensivi e a scoraggiare i loro attacchi e proseguì sicuro per la sua strada. Non mancava molto per giungere alla sua meta ed era stanco per le difficoltà affrontate nel lungo cammino, già era in vista del castello e non si volle fermare nemmeno un solo istante per risposare e proseguì ancora. Il vecchio ponte levatoio era stato distrutto dagli uomini e dalle ingiurie del tempo e lui si dovette arrampicare per gli antichi bastioni e superare il baratro che lo divideva dall’antico maniero. Aveva le mani che sanguinavano per l’arrampicata e gli dolevano ma se le fasciò alla meglio e proseguì.
Innumerevoli sterpaglie sbarravano spesso la strada ma egli le seppe evitare e sradicare e proseguire così il suo cammino. Attraversò le vestigia di quella che doveva essere stato il posto di guardia e proseguì ancora nella sua salita; superò antiche sale e diroccati corridoi fino ad arrivare in quella che doveva essere stata la sala del trono, vastissima e splendida. L’attraversò sicuro, salì sei gradini smozzicati dal tempo e mise la sua mano sulla parete di fondo. La sua mano sembrò infondere vigore e calore a quella parete, che si liberò delle sterpaglie e dell’antica polvere, si colorò di azzurro cielo e, come un vero firmamento, si riempì di luccicanti stelle dorate e rivelò al centro di essa una porta vecchia e scrostata. Il ragazzo poggiò l’altra mano su di essa e questa si aprì con uno scatto di serratura metallica rivelando un sentiero stretto e lunghissimo di cui non si vedeva la fine. Con estrema paura egli mise un piede su quel sentiero malfido. Poi mise anche l’altro e s’incamminò quasi tremante per quel viottolo mentre la porta si chiudeva bloccandosi alle sue spalle. Era così costretto a proseguire senza più poter tornare indietro. Da una parte e dall’altra dell’infido sentiero c’era un burrone di cui non si vedeva il fondo, poiché strane brume gli impedivano la vista. Aveva freddo e paura ma poteva solo andare avanti e avanti ancora. Spesso, sotto i suoi piedi, il terreno si sbriciolava e le pietruzze rotolavano giù verso il baratro. Piccoli e schifosi serpentelli comparsi da non si sa dove incrociavano a volte il suo passo, ma lui li seppe evitare anche se questi insistevano a mordere i suoi stivali e con essi a volte riusciva a schiacciarne qualcuno che tra mille spasimi rotolava giù nel precipizio. Guardò a un tratto verso l’alto come per chiedere conforto ma il cielo era cupo e freddo e silente. Non un solo uccello solcava l’aere né altre bestie si vedevano lungo il cammino tranne i serpentelli che infestavano quel luogo. Piano piano si accorse che il viottolo cominciava ad allargarsi e lontano vide una specie di piazzola, là si sarebbe fermato per riposare e dunque andò avanti sperando in un po’ di riposo. Era stanco, dolorante e infreddolito, ma la speranza di potersi fermare un poco e riposare lo aveva rincuorato.
Giunse così nello spiazzo che lui aveva visto da lontano e si sedette sopra uno spuntone di roccia sotto un vecchio albero senza più foglie dai rami scuri e irti, si appoggiò al suo tronco e qualcuno gli si avvicinò. Un uomo che aveva le mani affaticate e piagate da cui scorreva sangue vivo, il suo volto era buono e familiare.
Era suo padre, che lui sapeva trucidato dagli sgherri di un barone prepotente che spadroneggiava nella regione in quel tempo.
Lo accarezzò, poi lo abbracciò bagnando con le sue lacrime il volto del ragazzo.
«Non temere. Prosegui, io non ti lascerò mai solo.»
Così gli disse l’uomo che poi scomparve lasciandolo di nuovo in compagnia soltanto delle sue paure, ma con il vigore che quelle parole avevano saputo infondere.
Una nuova inquietudine lo colse all’improvviso, il viottolo che aveva appena percorso piano piano si stava sbriciolando e da lontano egli, adesso, lo vedeva crollare nell’abisso. Presto anche quella piazzola sarebbe stata inghiottita dal baratro, perciò il ragazzo raccolse le sue forze e si affrettò a riprendere il cammino.
Quanta strada aveva fatto?
Tanta.
A un tratto un cane nero, comparso all’improvviso sull’impervio viottolo cominciò a ringhiargli contro: egli raccattò da terra un nodoso bastone e con esso cercò di difendersi alla meglio. Il cane però fu più veloce e gli si avventò a un braccio che cominciò a sanguinare per i morsi subiti. Il ragazzo cercò con il bastone di tenere lontano il cane e di farlo cadere nel baratro ai lati della strada, ma il cane gli si avventò a un polpaccio e poi di nuovo alla mano che reggeva il bastone, ma con un calcio bene assestato il giovane riuscì a scansare il cane e buttarlo fuori dal viottolo, vedendolo poi scomparire giù nel baratro. Per un po’ si sentirono i guaiti del cane nero, poi più nulla. La strada aveva smesso di crollare e il ragazzo potè per un poco riposarsi e dominare l’ansia che da un po’ lo attanagliava. Il braccio sinistro gli sanguinava e anche il polpaccio. Si sedette a terra per riposarsi un po’ e guardò in alto. Scorgeva una pallida luna, adesso, e in alto Espero palpitava un poco come per indicargli il cammino e spronarlo a continuare ancora.
Versi di un poema rumeno gli tornarono in mente:

… Dall’alto Iperion guardava
Quant’eran trasognati;
Appena lui le cinse il collo
Che lei lo abbracciava…

Odoran fiori argentini
E cadon, dolce pioggia,
Sui capi di quei pargoli
Con bionde lunghe chiome.

Ebbra d’amore, lei innalza
I suoi occhi. Vede
Il suo Èspero. Gentile
Gli affida i desii:

– Scendi da me, Èspero blando,
Fluendo su un raggio,
Pervadi il bosco, il pensiero
Rischiara la mia sorte!..”*

Così gli venne in mente la sua ragazza, che aveva lasciato in Città soltanto il giorno prima o forse l’anno prima. Perché l’aveva abbandonata? Per intraprendere il suo cammino nell’ignoto? Per obbedire al destino o a sue immagini di esso? Per andare dietro ai suoi sogni.

* Di Mihai Eminescu nella traduzione di Valeriu Raut.

Continua…

Foto: juzaphoto.com

Per sapere di più su Bruno Siciliano e i suoi racconti visitate www.brunosiciliano.it.

Sta per arrivare… il Cartomante!

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