Morti di seconda mano
Di Mario Nirta
In Italia ogni momento è buono per celebrare qualche avvenimento: alcuni celebrano vari anniversari, i preti la messa, i nipoti la zia se li lascia eredi di qualcosa, e c’è chi, in mancanza d’altro e di meglio, celebra se stesso. Insomma, tutti rievochiamo qualcosa. E questo qualcosa, talvolta, è poco piacevole, perché riguarda eventi nefasti per la nostra storia e per quella mondiale.
A giusta ragione, ogni anno, a gennaio, si celebra il giorno della memoria per gli scomparsi nei lager nazisti, in maggioranza ebrei. Buchenwald che, ironia della sorte ha un significato quasi poetico (viale dei faggi), Treblinka, Auschwitz e altri luoghi di simili tragedie, essendo stati opera non di esseri umani ma di mostri, sono rimasti scolpiti nella memoria degli uomini dabbene, che non hanno bisogno di giorni particolari per ricordarli. Ma evidentemente, chi presiede ai nostri destini pensa che la nostra memoria sia labile quanto la sua e bagorda in manifestazioni sempre meno seguite e sempre più ripetitive.
Con tutto il rispetto per il dolore degli ebrei, che è anche il nostro dolore, vorrei far notare che c’è pure un altro evento drammatico, dalla pubblicistica dei vincitori spesso negato e sempre sottaciuto, parlo dei massacri delle foibe, che pretendono la propria rilevanza.
I vocabolari italiani, anch’essi addomesticati, sino a pochi anni fa si limitavano a definirle semplicemente cavità carsiche. Punto e basta. Ma per chi ha ancora qualche reminiscenza storica e prova pietà per tutte le vittime della bestialità umana, indipendentemente da ogni dottrina politica, esse rievocano ben altri drammi nei quali la crudeltà dei partigiani di Tito e di molti comunisti italiani, se non oltrepassò, sicuramente rasentò l’orrore dei lager nazisti.
E allora, per onestà intellettuale, e per rispetto a tutti i morti delle stragi perpetrate dalla bestia umana, diciamo che le foibe sono sì delle cavità carsiche, ma non solo questo. Sono anche qualcosa di orribile, luoghi di inaudita ferocia perché in queste cavità, che talora raggiungono i trecento metri di profondità, furono scaraventate vive parecchie persone, in maggioranza istriane, e tanti altri italiani della Venezia Giulia, della Slovenia e dei piccoli paesi di confine che non avevano fatto in tempo a lasciare le proprie terre.
Finalmente, dopo tanto tempo in cui, complici i vari Palmiro Togliatti e altri politici del genere, certi episodi erano stati rimossi, si è appurato che i partigiani di Tito razziavano i poveri istriani, bambini compresi, li legavano in colonna mani e piedi col fil di ferro, li allineavano sull’orlo delle voragini e il gioco era fatto: bastava sparare ai primi della fila che, precipitando, si trascinavano, vivi, tutti gli altri nel cuore della terra.
«Le foibe – disse Monsignor Antonio Santin – sono calvari col vertice sprofondato nelle viscere della terra». Un sacerdote, don Angelo Tarticchio, fu esumato nudo, con una corona di spine in testa e i genitali in bocca. Atrocità del genere ce ne furono a centinaia, e fa male persino citarle. Però, siccome me ne sbatto del famigerato politicamente corretto, aggiungo che quando i poveri profughi istriani ch’erano riusciti a scappare alla carneficina arrivarono alla stazione di Bologna, i ferrovieri iscritti al Partito Comunista inscenarono uno sciopero che impedì al treno di fermarsi, costringendolo a proseguire per La Spezia, dove parecchi bambini morirono di freddo. Mi domando quale sia la linea di pensiero che quei ferrovieri, se ancora vivi, riservano oggi ai moderni migranti.
Finalmente, da qualche anno, si celebra, ed era ora, il giorno del ricordo. E che l’Italia si sia ricordata solo da poco di quei poveretti è una vergogna, cui bisogna riparare dando a una simile tragedia quella diffusione e quel rilievo che la pubblicistica del dopoguerra ha loro negato. E che tutti i morti annientati dalla violenza umana, indipendentemente dal colore politico (perché almeno i morti sono morti e basta) meritano.
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