ADVST
ArteCostume e Società

Spazio

Di Attilio Spanò

La cultura italiana è ossessionata dalla ricerca e dalla comprensione dello spazio. Il superamento dello spazio mistico, che ha caratterizzato i secoli compresi tra il IV secolo e il XIV, e che si concretizza con la scoperta e l’applicazione della prospettiva, porta a un capovolgimento profondo dei valori non solo formali, ma anche morali, della società italiana. La necessità di porre al centro del pensiero l’Uomo, di ritrovare nella figura umana il discriminante formale e dimensionale del mondo, implica la necessità di riconoscere la supremazia dell’uomo sulle altre forme/specie naturali e animali, addirittura attribuisce alla mente speculativa e matematica umana, la capacità di palesare le più profonde motivazioni della realtà.
La conoscenza della realtà, la conoscenza sublimata di essa e non la mera descrizione di essa, è alla base della ricerca occidentale e, più specificatamente, mediterranea degli artisti e in generale dei pensatori e filosofi almeno fin dalle origini del pensiero, almeno fin dall’epoca greca. Già nell’arcaismo, infatti, l’oggetto di attenzione degli artisti non si identificava con la forma naturale ma la prescindeva, posponendo l’ammirazione e l’attenzione verso l’apparenza all’attenzione e alla comprensione dell’intima sostanza. Impossibile slegare tale attenzione dalla visione platonica del mondo e della realtà; il rimando dell’apparenza mutabile e mutevole alla fissità delle forme ideali, struttura il pensiero degli artisti del VI secolo e degli architetti dorici; la perfetta decantazione formale, che guida la realizzazione della forma del kouros e la perfetta e immutabile concreta astrazione dell’ordine dorico, evidenziano la necessità primaria dell’artista greco, quella di raggiungere la conoscenza intima della realtà attraverso la sublimazione della sua apparenza e la contemplazione della sua sostanza, perfetta, immutabile, assoluta.
Tale perfezione, che “non offre la propria storia, ma offre il proprio compimento” (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988, pagina 110), è proprio quella che si palesa con una chiarezza devastante nella redazione architettonica dei templi dorici e nella distanza senza tempo e senza spazio dei kouroi.
Il kouros, immagine archetipica dell’essere umano, si staglia in uno spazio che non gli appartiene e che non occupa, cristallizzando, in questo modo, un tempo eterno nella sua immobilità iconica. Il tempio, a sua volta, fissa lo spazio nella forma geometrica perfetta, che concretizza il tempo sia di comprensione sia di attraversamento di essa. L’architettura, spazio razionale che sublima nella forma definita l’indefinitezza naturale, accoglie e dà forza vitale all’immagine archetipica dell’uomo; il kouros all’interno del naos dell’edificio prende vita, dialoga con l’essere umano mutevole, svelandogli la realtà cristallina e perfetta dell’idea immutabile, palesata dalla sua forma.
La perfezione, così spudoratamente svelata dai kouroi e dai templi dorici, è fondamentalmente principio e fine di un percorso di purificazione dall’eccesso materiale, per raggiungere la perfezione formale, altrimenti inconoscibile.
Questo percorso sublimativo, che vede il graduale abbandono dell’accidentale per la conquista della perfezione primaria – dell’archè – è un percorso che si snoda in senso circolare e non lineare. Esso segue, infatti, un’intuizione primaria dell’essere umano che è quella di cercare un’armonia tra lo spazio e il tempo, tra la forma e l’idea.
Ora è proprio questa ricerca delle ragioni dell’essere e dell’armonia tra l’essere e il mondo e tra lo spazio e il tempo, assieme alla necessità di comprendere il ruolo positivo dell’uomo nella realtà spazio temporale – immagine di una sublimata verità a-spaziale e a-temporale – che diventa sostanziale nella sapienza greca e nell’uomo mediterraneo. Il paradossale dualismo forma/sostanza è superato dal rimando all’unità, dove la forma è la sostanza e dove solo tramite la contemplazione della forma purificata avviene l’accesso alla realtà inconoscibile al di là dell’apparenza.
L’annullamento della forma nella ricerca della realtà al di là di essa, che informa tutta la cultura che non vede l’uomo elemento centrale della speculazione filosofica, porta irrimediabilmente a una perdita di quelle coordinate talmente umane da permettere la contemplazione dell’unità Uomo/Dio, ciò è a discapito ora dell’uno ora dell’altro elemento del dialogo. L’assenza di uno dei due attori dalla comunicazione porta irrimediabilmente alla perdita delle coordinate necessarie all’azione stessa, lo spazio che non accoglie più l’uomo si dilata e si restringe in maniera indipendente dall’uomo, il tempo si annulla nell’eternità della contemplazione del non comprensibile.
Il capolavoro del dualismo è la chiesa bizantina; il capolavoro della volontà dell’annullamento della conoscenza razionale per la sottolineatura della necessità di superarla, in vista della contemplazione intuitiva della medesima verità, è lo spazio in continua metamorfosi delle chiese bizantine. La negazione delle pareti, che scompaiono dietro alla luce riflessa dei tappeti musivi, la perfezione astratta delle icone, che eludono ogni dialogo con il fruitore riconquistando quello spazio dell’eternità, che era stato negato al kouros con la realizzazione del tempio dorico, partecipano all’esclusione della realtà contingente, come elemento di partenza per il raggiungimento delle verità assolute. È la fissità dell’immagine iconica che si impone nello spazio, che muta indefinitamente attorno a essa; la bidimensionalità senza spazio del kouros – immagine archetipica dell’uomo – si espande nella bidimensionalità senza tempo di Cristo – immagine archetipica dell’umanità.
L’immagine archetipica dell’Uomo prende vita nel rapporto dialogico con l’essere umano, l’immagine archetipica dell’Umanità è la prova della vita al di là della vita vissuta. E il cerchio si chiude.
L’unità greca, antecedente alla necessità del manicheismo dualistico di origine ebraico- cristiano, è comunque alla base della negazione di essa da parte della cultura bizantina e, in generale, cristiano-europea. L’impossibilità di rinnegare totalmente la figura dell’essere umano, che si impone nell’estetica iconoclasta dell’VIII secolo, emerge con forza nella necessità sempre più forte di sottolinearlo attraverso l’esaltazione o il rinnegamento del corpo, fino a riconoscerlo come punto di partenza e di arrivo imprescindibile nella divinizzazione di esso, esaltata negli straordinari mosaici trecenteschi della controfacciata di Santa Sofia a Istanbul, dove l’equilibrio tra umanità e divinità raggiunge l’acme.
Ma paradossalmente, nel momento in cui nel mondo bizantino l’identità tra uomo e archetipo si concretizza nell’immagine assoluta della Deesis di Santa Sofia, ad Assisi e a Padova, per opera di Giotto, l’immagine contingente dell’uomo esalta la sua identità storica e temporale, trascendendola nella consistenza del volume purissimo, sintesi perfetta di spazio e tempo. Proprio grazie a questa sintesi di idea oltre l’umano e di umano oltre la contingenza, l’Italia del XIII secolo pone le basi per il superamento definitivo del dualismo bizantino, per la riproposizione di un’unità di idea e di apparenza materiale nell’evidenza umana.
I volumi puri di Giotto, la presa di distanza da un estetismo tutto volto a mistificare la realtà contingente, con un rimando continuo a un aspetto, superficiale e transeunte di essa, aprono la cultura italiana alla comprensione vera della realtà storica, e a un tempo eterna, dell’essere umano. Lo spazio dell’azione e l’azione nello spazio si compenetrano e si sintetizzano in un’unità geometrica, uno spazio misurabile in tempo e distanze e un tempo comprensibile in spazi da attraversare.
Questa sintesi spazio-temporale è l’ossessione dell’uomo del Rinascimento. Lo storicismo giottesco di Assisi, la ricerca esasperata di verità di Arnolfo di Cambio, il ritrovamento dell’unità nella molteplicità di Masaccio nella Cappella Brancacci fino alla mortificazione dell’uomo nell’immagine attonita della Giuditta o distrutta dalla sua stessa vita della Maddalena di Donatello, non sono che declinazioni della stessa verità dogmatica. L’uomo e la figura umana sono sintesi piene di rapporti tra spazi; volumi che nello spazio si definiscono, che creano spazio e che misurano lo spazio. Allo stesso tempo la rischiosa astrazione geometrica viene elusa dall’attenzione verso il percorso dell’essere umano all’interno del tempo. Le tracce del tempo sul volto, sul corpo, sulla ideale perfezione volumetrica, che certamente vanno a intaccare l’armonia apollinea, rintracciabile in equilibri formali e spaziali che da Giotto riemergono continuamente fino a Piero della Francesca e Antonello da Messina, configurandosi, allo stesso tempo, come la compresenza del dionisiaco nell’essere umano, nel mondo e nell’arte, da sempre.


Edil Merici

Ora, questa dialettica positiva tra apollineo e dionisiaco, tra variabilità e riduzione all’unità, appare fondamentalmente tutta italiana o, al massimo, mediterranea; informa, insomma, culture e popolazioni in cui il pensiero speculativo sulla presenza dell’uomo nel mondo, sulla scintilla di divinità nell’uomo, sulla centralità dell’essere umano nell’universo, è tipico di ambienti in cui lo spirito creativo dell’uomo è fondamentale per il superamento del contingente, per il raggiungimento del godimento delle realtà immutabili.
Questo distillato di conoscenza, che è alla base della perfetta redazione del tempio dorico, che impone sulla variabilità fenomenica l’unità di tempo e azione, l’unità formale sulla variabilità naturale, emerge con forza nella cultura italiana quattrocentesca, opponendosi al dilagare dell’empirismo fiammingo, così volto all’attenta, ossessiva, incredibile capacità di cogliere della natura e dell’uomo ogni aspetto, ogni particolarità, ogni elemento in grado di poter isolare la persona dall’infinito mondo di possibilità.
Dal confronto tra le meravigliose opere di Jan van Eyck, di Rogier van der Weyden e di altri eccelsi artisti fiamminghi del XV secolo, e le realizzazioni mediterranee della prima metà del ‘400, la distanza tra le due culture apparirebbe incolmabile. I giotteschi e Masaccio, Donatello e Ghirlandaio sono il paradigma della certezza della sintesi umanistica, la tendenza alla geometrizzazione e la scoperta dell’unità spazio temporale, utopisticamente gestibile con un colpo di mano geometrico-matematico e iperbolicamente mistico: la prospettiva. La messa in relazione di situazioni e di oggetti attraverso un semplice reticolo geometrico, dimostra la capacità di gestire il tempo e lo spazio e di avviare la realizzazione dell’unicità. Volumi e spazio attorno a essi non sono che manifestazioni diverse della medesima realtà ideale. La differente aggregazione molecolare, che consentirebbe di ridurre tutto alla medesima sostanza, non è affrontata dalla cultura fiorentina del XV secolo; il problema non è indagare sulle forme della natura, la necessità è di superarle e di raggiungere l’idea, la perfezione immutabile della bellezza.
Nulla di più distante dalla ricerca affannosa di indagare su ogni aspetto naturale, volta a cogliere ogni aspetto della variabilità del reale che i fiamminghi portano avanti con assoluta sapienza e incomparabile certezza. Ma mentre la strada italiana porta alla sublimazione, evidenzia la forma e la sostanza dell’uomo nello spazio e nel tempo, supera d’un balzo il misticismo teocentrico per una nuova realtà antropocentrica e, in quanto tale, riconoscente nell’antropomorfismo l’immagine più vera e più stabile della divinità.
Ma il fascino sensualissimo della contingenza superficiale fiamminga non incontra invano le frange più colte della cultura mediterranea. La capacità così alta di superare la superficiale descrizione delle azioni e degli attori, per raggiungere la solitudine olimpica dell’idea, a un certo punto sembra avere bisogno di riconoscere nel mondo apparente le ragioni del mondo reale, e il primo diventa immediatamente la giustificazione del secondo, quasi esalta il secondo fino a partecipare alla concreta percezione di esso, altrimenti incomprensibile ai più. La sintesi perfetta di mondo sensibile e mondo ideale è certamente raggiunta da Antonello da Messina e da Piero della Francesca, sintesi che si esplica sicuramente attraverso una serie di valori diversi – plastici, cromatici, costruttivi – ma che al di là di differenze formali si pongono come punti di svolta decisiva per l’estetica, non solo del Rinascimento e non solo per l’Italia. Il valore del paesaggio e dell’ossessiva ricerca del particolare fiammingo, così meravigliosamente distante da ogni volontà di conoscenza e così perfettamente concentrata sulla necessità di cogliere ogni istante, ogni evento, ogni segno di vita materiale fino a superare la percezione ottica dando all’immagine quasi un carattere mistico e visionario assieme, nelle mani di Piero e di Antonello muta completamente, diventando parte integrante dell’intuizione artistica sublimata, supportando con la sua incredibile dose di apparente veridicità, la realtà immutabile e assoluta che la stessa opera coglie.
Ed è questo il senso del paesaggio del Montefeltro: espansione concettuale della figura perfetta e immobile di Federico; questo il senso dell’uovo della Sacra Conversazione di Brera: forma perfetta che raccoglie in essa la conversazione congelata della Vergine nello spazio misurato e di albertiana memoria. L’uovo dalla forma invariabile è il contenitore di ogni variabilità, è la quintessenza del rapporto che si intesse adesso, e in maniera esemplare, tra l’empirismo mistico fiammingo e il neoplatonismo naturale italiano.
Ma l’acme di questo percorso che vede concretizzarsi, al di là del piano limite della tavola dipinta, uno spazio che la trascende, la supera e la comprende, un flusso spazio-temporale che coinvolge anche lo spettatore, è nelle opere sublimi di Antonello da Messina.
Qui la lezione fiamminga è, semmai fosse possibile, ancora più assimilata al pensiero mediterraneo. In Antonello la sensualità senza tempo né spazio di van Eyck esplode nel colorismo dei mosaici bizantini e si condensa nella forma spazio-tempo assoluta che accoglie, esalta, condensa e supera allo stesso tempo, gli eventi accidentali di ogni singolo essere vivente. L’Annunciata di Palermo è il capolavoro dell’incontro supremo tra il Mediterraneo e i Fiamminghi; l’espressione di estrema e totale umanità, lo stupore e, assieme, il garbo e il timore e la titubanza, espressi nel gesto di allontanamento dell’Angelo – che muove con le ali il libro della Vergine, e nell’istintivo chiudere il proprio mantello sul seno, pur utilizzando modalità fiamminghe vanno bel al di là dell’essere mera descrizione, sono la definizione dell’Umanità idealizzata e ideale. Oltre al gesto, la mano della Vergine definisce per sempre lo spazio al di qua di essa e il volume puro, piramidale, perfettamente pensato, concepito, del busto e del mantello della Vergine, all’interno del quale si staglia perfettamente ovale il suo volto, spinge lo sguardo e lo spettatore al di là della figura della Madonna, ad avvolgerla, accoglierla e vivere con lei il suo spazio, talmente tanto metafisico da essere tanto più vero del vero.
La grandezza di Antonello è tale in quanto è al di là del tempo, in quanto ricompone in un attimo un tempo che solo apparentemente muta, ma che di fatto rimane metafisicamente immoto.
E il cerchio si chiude.
La Vergine Annunciata, immagine archetipica dell’essere umano, si staglia in uno spazio che non gli appartiene e che non occupa, cristallizzando, in questo modo un tempo eterno nella sua immobilità iconica. Il buio da cui emerge, a sua volta, fissa lo spazio nella forma geometrica perfetta, che concretizza il tempo sia di comprensione che di attraversamento di essa. Esso è l’immagine dello spazio razionale che sublima nella forma definita l’indefinitezza naturale, accoglie e dà forza vitale all’immagine archetipica dell’uomo; la Vergine al di là del leggio prende vita, dialoga con l’essere umano mutevole, svelandogli la realtà cristallina e perfetta dell’idea immutabile, palesata dalla sua forma.
Questa
perfezione, così spudoratamente svelata dai kouroi e dai templi dorici, si manifesta adesso nell’Annunciata siciliana ed è fondamentalmente principio e fine di un percorso di purificazione dall’eccesso materiale, per raggiungere la perfezione formale, altrimenti inconoscibile.
Questo percorso sublimativo, che vede il graduale abbandono dell’accidentale per la conquista della perfezione primaria, dell’
archè, è un percorso che si snoda in senso circolare e non lineare. Esso segue, infatti, un’intuizione primaria dell’essere umano che è quella di cercare un’armonia tra lo spazio e il tempo, tra la forma e l’idea.
Ora è proprio questa ricerca delle ragioni dell’essere e dell’armonia tra l’essere e il mondo e tra lo spazio e il tempo, assieme alla necessità di comprendere il ruolo positivo dell’uomo nella realtà spazio temporale – immagine di una sublimata verità a-spaziale e a-temporale – che diventa sostanziale nella sapienza greca e nell’uomo mediterraneo. Il paradossale dualismo forma/sostanza è superato dal rimando all’unità, dove la forma è la sostanza e dove solo tramite la contemplazione della forma purificata avviene l’accesso alla realtà inconoscibile al di là dell’apparenza…

Foto: La Città ideale (particolare)

Redazione

Redazione è il nome sotto il quale voi lettori avrete la possibilità di trovare quotidianamente aggiornamenti provenienti dagli Uffici Stampa delle Forze dell’Ordine, degli Enti Amministrativi locali e sovraordinati, delle associazioni operanti sul territorio e persino dei professionisti che sceglieranno le pagine del nostro quotidiano online per aiutarvi ad avere maggiore familiarità con gli aspetti più complessi della nostra realtà sociale. Un’interfaccia che vi aiuterà a rimanere costantemente aggiornati su ciò che vi circonda e vi darà gli strumenti per interpretare al meglio il nostro tempo così complesso.

Related Articles

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button