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Costume e SocietàLetteratura

La lezione di vita impartita da “Mana Ghi”

Di Luisa Ranieri

Con la fuga ad Africo vecchio, per i ragazzi protagonisti de La maligredi di Gioacchino Criaco si apre uno scenario sconosciuto e affascinante di cime, valli, dirupi, corsi d’acqua, laghi e luoghi, come il Khoraco, che ci riportano all’antica mitologia greca. E, attraverso le descrizioni di Nicola, anche noi veniamo a conoscere alberi, sottoboschi, fiori di tutti i colori, uccelli e bestie feroci e sentiamo il profumo di una terra che, per essere capita, richiede che ognuno abbia già in sé “il desiderio  di libertà”.
Scappano in una notte di luna piena, i tre ragazzi, e proprio notando le proiezioni scure dei loro corpi sulle pietre bianche della fiumara comprendono che stanno per diventare “ombre”, cioè persone che “scappano da qualcosa” di grave ma non di irreparabile, come succede invece ai protagonisti di Anime nere, “che scappano da qualcuno ma anche e soprattutto dalla propria coscienza annerita da un peccato quasi impossibile da scordare” (pagina 263).
E l’Aspromonte si apre ai loro occhi con tutta la forza rivelatrice della verità della vita: la necessità dell’equilibrio come regolatore dei rapporti tra tutti i componenti della natura: uomini, animali, piante, acque, pianure e montagne.
Ed è proprio nelle pagine dedicate a Mana Ghi che le parole dello scrittore diventano alta lirica che commuove e trascina con sé il lettore.

Mangiai guardando il sole indossare il suo vestito migliore, destinato a una giornata più importante delle altre: rosso con sfumature giallo e oro. Igghiu lo chiamavano le vecchie, nel greco antico, “glucìu igghiu”, “dolce sole”, sospiravano quando si affacciava a vincere le albe umide. E igghiu si alzò, scoprendo il velluto ancora scuro dello Jonio, e scolpì il piano sulla costa e rincorse i balzi della terra, colorando i fianchi delle montagne.
pag. 265

Ma, tra gli uomini, l’equilibrio non c’è e, per salvare la loro vita dalla “sentenza definitiva” decretata dal tribunale della criminalità affibbiata a cui avevano fatto lo sgarro prima delle azioni illegali portate avanti in proprio e poi quello della partecipazione alla Rivoluzione sociale, il Maresciallo Palamita che, “non volendo né morti né feriti in giro” (pag. 297) in tacito accordo con Giannino ne aveva permesso la fuga in montagna, li invita a lasciare al più presto non solo l’Aspromonte ma l’intero paese e a cercare scampo nell’emigrazione.
L’emigrazione, oggi come ieri eterna valvola di sfogo di ogni problema economico e sociale italiano, nella fantasia dell’autore diviene persona con il Treno che, come il Pellaio che scuoia gli animali per poi venderne le pelli altrove, si porta via le vite martoriate dei suoi viaggiatori.
Ma un “figlio del vento” come Nichino non può accettare una tale scelta, anche se la sua ricerca di libertà nella fuga col precipitarsi fuori dal treno in una “galleria lunga lunga” lo porta poi ad infilarsi in un’altra, metaforica, questa volta, ma altrettanto lunga e oscura.
Ed è a questo punto che, secondo me, il romanzo La maligredi trova il suo aggancio e il suo prosieguo nel più conosciuto Anime nere.
Anche in quest’ultimo i protagonisti sono tre giovani amici che, però, a differenza dei tre ragazzi, scelgono in modo consapevole di seguire la via del Male tramite l’arricchimento facile.
Per loro condanna e soprattutto pietà da parte dello scrittore che, a incipit del libro,  dichiara e implora:

Tanto, troppo sangue hanno versato e fatto scorrere i figli dei boschi, fratelli inutilmente e stupidamente divisi. Possano Dio e gli Dei placare lo spirito guerriero che li anima, e scacciare il demone che li possiede.

Perché, a mio parere, il Male a cui ci si trova davanti in termini di ingiustizie e prevaricazioni sociali scava abissi tanto profondi negli animi, soprattutto dei giovani, da rischiare di farli diventare, al contempo, carnefici di sé stessi e degli altri.
Ne La maligredi, che si configura come un romanzo di altissima formazione, il protagonista prende, alla fine, coscienza di sé ma soprattutto degli errori della sua terra che, per sopravvivere alla miseria, ha fatto come il vedovo Zirilli a cui “un mese di zappa un possidente lo pagò con un maialino” che l’uomo si tenne in casa senza volersi accorgere, finché non fu il suo turno, che i suoi sette figli non erano spariti  per colpa del cane del diavolo Piruzza ma divorati da quel malefico porco che si ingrassava e si ingrassa della miseria degli altri.
“Mi dico che la maligredi ha fatto il gioco degli gnuri, dei preti e dello Stato, ma la fortezza dell’Aspromonte non l’avrebbe mai conquistata se non ci fosse stato un malandrino ad aprirgli le porte”. E quel malandrino, quel porco che la gente si tiene sotto il letto in cambio di un pezzo di pane, finirà, se non lo si ferma prima tramite una vera giustizia sociale, per divorare tutto e tutti.


Edil Merici

Foto: mtbxls.files.wordpress.com

Redazione

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