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Costume e Società

La serpe di mastro Mico e le lezioni di metempsicosi


Edil Merici

L’ho scritto qualche tempo fa e lo ripeto oggi. Resto perplesso in merito al luogo di prove­nienza (o meglio, di origine) del nostro benamato Pitagora. Tutti sanno che il celeberrimo filosofo nacque sull’isola di Samo. Ma non tutti sanno che all’epoca esisteva anche un’altra Samo, precisamente sulle nostre coste. Samo di Magna Grecia. Vi starete sicuramente chiedendo cosa abbia a che fare tutto ciò con quanto andremo ad affrontare. Semplice: è mia intenzione cercare nei resti della nostra cultura tracce riconducibili al filosofo. Perché? Perché davvero (in nessuna occasione) do­vremmo abbassare la guardia, né sfuggire alla possibilità di dimostrare ciò che potrebbe spettarci per diritto acquisito. Poiché il soggetto in que­stione, Pitagora, potrebbe essere nato in questa e non nell’altra Samo.
È altresì necessario che si sappia che l’attuale Samo, piccolo borgo aspromontano, già da diverso tempo ne rivendica la paternità. E noi non possiamo che essere d’accordo.
Immagino, tuttavia, che sia difficile dimostrare con fatti quanto facil­mente espresso a parole. Eppure, pa­radosso dei paradossi, per arrivare a tale proposito basterebbe che ci spostassimo in avanti di poco più di due­mila anni dalla nascita del filosofo, vale a dire ai giorni nostri, per aggiungere un importante tassello nel nostro casellario di ricerche. Ma vediamo come e, soprattutto, perché.
Racconta mastro Mico, custode del cimitero di Pardesca del Bianco, che già da diverso tempo, tutte le mattine, incontrava una serpe nei pressi di una tomba.
Appariva tranquilla, la povera be­stiola, come se nulla potesse turbarla. Docile era, sempre collocata al suo solito posto; immobile, intenta a scrutarlo con occhi languidi, quasi si fosse instaurata (o meglio, ci fosse già stata in precedenza) una certa intimità tra i due.
Alla fine, mastro Mico non poté che cedere alla convinzione che si trat­tasse dell’anima benedetta di una persona già morta ma che aveva conosciuto in vita, probabilmente un suo parente. E, dal momento che la suddetta anima non appariva ostile ai suoi occhi, pensò di ignorarla. Anzi, pensò addirittura di dedicarle quel tipo di attenzioni che generalmente si rivolgono alle persone. Così che ben pre­ sto diventò una specie di compagnia, per lui. Una compagnia con la quale soleva scambiare di tanto in tanto poche chiacchiere, pure se questa, per ovvie ragioni, non gli rispondeva. Del resto – come lui stesso racconta – non era cosa nuova che questa o quell’altra anima di persone già morte, si fosse appropriata del corpo di un animale, di un cane, ad esempio, ma anche di un gatto, di un topo o, come nel suo caso, di una serpe.
Una bella mattina, arrivato a lavoro di buonumore, nel vedere la serpe al suo solito posto, un po’ per gioco, un po’ per sfida, Mastro Mico rivolse all’animale le seguenti parole: «Oh, essere del purgatorio. Se davvero, come io credo, sei un’anima, alzati in piedi». E questa, manco avesse capito ogni singola parola di quanto Mastro Mico le aveva co­mandato, si eresse sulla coda e, emettendo uno strano suono, procedette verso di lui.
Racconta mastro Mico che, morto dallo spavento, lasciò gli attrezzi da lavoro e si diede a una fuga dispe­rata. Ci vollero un bel po’ di minuti e un bel paio di bicchierini di cognac per farlo riprendere dallo shock.
Se ne tornò a casa e, per un paio di giorni, rimase a letto con la febbre. Questo è quanto ancora oggi lui stesso racconta.
Povero mastro Mico! Probabilmente non sapeva della presenza di una certa verità in tutto questo. Una verità culturale. Una realtà che noi, per forza di logica, rapporteremo a Pitagora.
Parecchi secoli fa, infatti, il filosofo samese impartiva tra le popolazioni della Magna Gre­cia, le lezioni di metempsicosi, ossia la dottrina che celebrava la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro.
Lo stesso Diogene Laerzio insisteva sul fatto che Pitagora avesse vissuto diverse vite, di cui egli stesso diceva di ricordare. Pitagora sosteneva, infatti, che la sua anima avesse effettuato il suo percorso formativo passando in continuazione da una pianta all’altra e, infine, in corpi di animali e, da essi, a quelli degli esseri umani. Questo sarebbe dovuto durate fino a che si compiva il ciclo di purificazione, pari a circa mille anni.
Ma non fu solo Diogene a sostenere questa tesi. Altri raccontarono che il filosofo si fosse reincarnato nel corpo di un tale Periandro, poi in quello di un uomo chiamato Etalide e, infine, in quello di Alco, una bellissima donna che di mestiere faceva la vita.
Senofane sostiene che Pitagora, un giorno, trattenne per un braccio un uomo che stava per bastonare un cane. «Ti prego – gli disse – non picchiare il tuo cane, giacché in esso si trova l’anima di un mio amico, di cui ho appena riconosciuto la voce». Questo, in un certo senso, confermerebbe che le nostre convinzioni in tale campo affondano le radici in tale cultura. Perché si tratta di convinzioni sopravvissute fino a pochi anni fa nel basso ionio reggino.
Questo, naturalmente, ci consente di aggiungere un altro piccolo tassello alla nostra ricerca. Sarei pertanto propenso a considerarlo un dato certo, dal momento che la zona di influenza di Pitagora si estendeva da Sibari a Metaponto, dove sembrerebbe non vi sia rimasta traccia della metempsicosi. È pertanto possibile che si tratti di una cultura che al­l’epoca lo stesso Pitagora aveva preso a prestito dal suo luogo di origine, cioè da Samo di Magna Gre­cia? Una convinzione sbarcata con i primi coloni insieme al loro bagaglio di speranze? È possibile, sì!
Una cultura che si è perpetrata fino ai giorni nostri solo in un determinato territorio, cioè il luogo di massima diffusione della stessa.
Non per nulla, fino a pochi anni fa, nelle fredde notti d’ inverno, quando si era raccolti accanto al focolare, i nostri avi narravano delle anime di questo o di quell’altro parente, co­strette a espiare il loro ciclo di reincarnazione transitando da un corpo all’altro.

Foto di Carlo Catoni


GRF

Francesco Marrapodi

Francesco Marrapodi approda a Métis dopo aver ricoperto importanti ruoli in altre testate giornalistiche. 
È stato Redattore Capo per la provincia di Reggio Calabria de “L’Attualità”, collaborato con “Calabria Letteraria” e con “Alganews”, nonché con la testata giornalistica “In Aspromonte”. 
Ha studiato tecniche e metodi di scrittura del “Gotham Writers' Workshop”, è stato inserito nell’antologia “Ho conosciuto Gerico” in onore di Alda Merini con la poesia “La Nova” e fa parte dell’“Unione Poeti dialettali di Calabria”.
L’8 agosto del 2014 ha realizzato sulla spiaggia di Bianco una statua di sabbia raffigurante Papa Francesco, evento recensito da “Famiglia Cristiana” per il quale ha ricevuto il ringraziamento e la benedizione del Papa in persona. 
Si è reso inoltre promotore di una campagna contro l’inquinamento marino con “La morte di Poseidone”, statua di sabbia che ha suscitato grande interesse in tutto il mondo. 
Francesco è oggi un punto di riferimento redazionale su Bianco e dintorni, con un ruolo di primo piano nella Redazione Cultura.

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