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Costume e SocietàLetteratura

La meraviglia di Venere e una vita di disdicevole ozio

La tela del ragno


Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Cercava di immedesimarsi in quella vita radicata nel passato, lontana da una chiara visione del futuro; non riusciva a trovare una legittimazione di quel tipo di comportamento dei compaesani, tanto che il volto gli si adombrava, palesando sofferente incomprensione.
Durante quei giorni di permanenza nel paese dov’era nato, alle porte dell’imbrunire, Aquilino s’incamminò lungo la stretta via che di solito percorreva assieme al nonno quando andavano a visitare le proprietà. La strada che portava dal paese ai terreni era in terra battuta, in alcuni punti la corsia si stringeva così tanto che la carrozza, per passare, poggiava la ruota sul muro a secco dando la sensazione che stesse per cadere nel vuoto. Aquilino, impaurito, teneva gli occhi fissi sul dirupo, il tempo sembrava fermarsi, quei cinquanta secondi necessari per superare quel tratto li percepiva come se non finissero mai. Quella circostanza di fastidioso disagio gli portava la frequenza del cuore ad aumentare smisuratamente, aveva la sensazione che una gelida mano gli accarezzasse la schiena, facendogli venire la pelle d’oca. Il nonno, attento alle manovre non si avvedeva della paura del nipote.
Finiti quegli attimi d’indecifrabile paura, il nonno prendeva a dire: «Aquilino mio, nella vita ci sono dirupi molto più pericolosi di questo… stai attendo sulla scelta della via da percorrere. Soprattutto, evita le cattive compagnie.»
Le parole del nonno le portò sempre nel cuore, come fossero le più sacre delle reliquie.
Anche quella volta, come sempre, portò con sé un paniere ricavato dall’intrecciatura di sottili lamine di canna, alla cui sommità vi era un arco intrecciato che fungeva da manico. Ma quel giorno non riuscì a riempire della solita frutta profumata l’inseparabile compagno di tutte le scampagnate: era sul finire della stagione e gli alberi si mostravano stanchi come un vecchio prossimo alla fine.
Arrivato nella piazza, Aquilino mosse verso il bar centrale, dove di solito gli amici si trovavano per giocare a carte. Dietro al bancone, quel tardo pomeriggio, c’era la nipote di Giorgio, detto pertica; la ragazza, di nome Maddalena, frequentava il terzo anno della scuola d’arte; amava l’arte in generale e in particolare la musica dei neri d’America. Durante i turni in cui c’era lei a governare il bar, il Jukebox non conosceva sosta fino alla chiusura del locale. La voce si diffondeva nel locale con straordinaria armonia, Aquilino sentiva il suo corpo rilassarsi, pervaso da piacevoli sensazioni. Dopo aver tracannato oltre la metà della bottiglia di Jack Daniel’s, il suo corpo divenne duro, tutto rutilante. Allo stesso tempo l’intensità e la durata della musica si dilatava, si gonfiava come una mongolfiera. Colmava la sala con la sua trasparenza metallica, scaraventando contro i muri il loro miserabile tempo. La musica gli era entrata dentro, fino a raggiungere i meandri più segreti dell’inconscio, dove la realtà viene piegata e sottomessa alla divina follia. Negli specchi roteavano globi di fuoco; anelli di fumo li circondano velando e svelando il duro e strabiliante sorriso della luce. Finito il Jack Daniel’s, si fece portare un bicchiere da mezzo litro, ricolmo di birra Tennent’s Super Strong Lager. Assumeva forme insensate, come se gli occhi fossero preda degli effetti della mescalina; il contenitore di vetro si piegava sul tavolo. Voleva afferrarlo e soppesarlo, stese la mano… Mio Dio, esclamò sorpreso. Era questo, soprattutto, ad essere cambiato, erano i suoi gesti. I movimenti del suo braccio seguivano il canto della donna; i suoi sensi offuscati condizionarono i suoi occhi a vedere ogni cosa danzare. II viso di Mario Rossi era là, appoggiato contro il muro color bianco pallido; sembrava lontanissimo, oltre l’ultimo orizzonte della follia del pensiero. Nel momento in cui la sua mano si richiudeva aveva visto la sua testa; aveva l’evidenza, la necessità d’una conclusione. Serrò le sue dita contro il bicchiere, guardo Mario Rossi, e disse: «Sono felice». Di fronte a lui, a poca distanza, c’era Nella, una donna dalla pelle cerea che muoveva continuamente le mani, ora carezzandosi la camicetta, ora aggiustandosi i capelli tinti color grano; stava lì con Gianni detto Il malandrino che mangiava una brioche senza proferire verbo.Nella si guardava intorno e rideva come se cogliesse l’aspetto comico della vita.
Aquilino, uscito dal locale, si incamminò, con passo sbilanciato dai fumi dell’alcol, in direzione di casa.
Le ultime luci dell’astro se n’erano andate da un pezzo, la notte si era imposta senza esitare, coprendo, con il suo manto fatto di tenebre, monti e valli.
Dai tetti dei vecchi palazzi, i gufi fecero sentire la loro sinistra voce turbando la quiete della notte. Aquilino volse lo sguardo verso il cielo, la volta celeste apparve piena di stelle scintillanti, ma Venere primeggiava su tutte: la sua luce era così intensa che destò in lui una certa meraviglia.
I giorni passavano lenti, soggiogati dalla noia; tutto gli appariva grave e fatale, come un macigno d’immane  dimensione. Era teso e dall’umore cupo, aspettava con ansia una chiamata dai soci della Slovenia, non riusciva ad abituarsi a quella vita di disdicevole ozio.

Continua…

Foto: leganerd.com


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