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Costume e SocietàLetteratura

L’obbligo a Locri della conciliazione prima del processo

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri


Edil Merici

Di Giuseppe Pellegrino

Così recita la norma che viene riportata solitamente con il nº 10: Vietarsi di procedere ad un giudizio fra due se prima non siasi tentata la conciliazione.È ragionevole pensare che la conciliazione potesse essere tentata senza una forma particolare dagli stessi magistrati che avevano in carico la causa e che si non si erano fatti un pregiudizio sulla lite, perché non era edotto delle prove che si sarebbero portate. Quindi gli stessi magistrati e non un magistrato diverso rispetto a quello del giudizio successivo di merito, per il principio della non sovrapposizione delle cariche.
Si ricorda che a Locri vi è obbligo del tentativo di conciliazione, prima dell’inizio di un processo. Essendo il processo di qualsiasi natura fondato su iniziativa di parte, anche quando l’iniziativa era pubblica, è ipotizzabile che detta fosse applicabile anche nelle questioni che, per praticità, chiamiamo penali; tuttavia, siamo personalmente di parere contrario. Proprio questo elemento è discriminante rispetto al processo ad Atene.In questa polis, il Magistrato è solo una figura con funzione istruttoria, essendo il popolo, per il resto, l’arbitro della controversia. Con Aristotele si può dire che ad Atene “Il dèmos si è reso padrone assoluto di tutto, e governa su ogni cosa con decreti dell’assemblea e con i tribunali, nei quali il popolo è sovrano”.Ma è bene ricordare che ad Atene, la giuria popolare si limitava a enunciare in materia la colpevolezza o meno dell’imputato (come negli Stati Uniti oggi),o la tenutezza dello stesso a un dato comportamento, mentre l’applicazione della pena (sanzione) era lasciata al libero convincimento dell’Arconte, posta l’inesistenza di una pena certa, che condannava secondo parametri non ben definti.
In definitiva, l’eccesso di potere al popolo si configurava non come democrazia, ma semplicemente come populismo o, peggio, demagogia. La retorica nel processo acquistava un’importanza assoluta: demonizzare la controparte, acquistarsi la simpatia della giuria, era essenziale. Si finiva così per dare rilevanza nelle decisioni al dato oratorico creando una interferenza tra valutazione politica ed emotiva del caso e valutazione strettamente giudiziaria.
A Locri la pena era fissa e uguale per tutti. Accertata la colpevolezza dell’imputato, la condanna era prevista in modo secco dalla legge (senza un minimo e un massimo) e non prevedeva alcuna discrezionalità da parte dell’arconte, che a Locri non era autognòtos: non aveva in sé la conoscenza.
Si capisce così la norma del Proemio di Zaleuco, per come ricordato da Diodoro, in cui è lo stesso Zaleuco a dare fondamento alla previsione “Che nessun cittadino perseguiti con odio il suo nemico, ma lo riguardi come uno con il quale sarà tra poco a ritornare amico. Chi farà altrimenti dovrà tenersi per uomo di carattere indomito.”
Il processo come una semplice soluzione a contese tra cittadini e non una guerra simbolica, in cui anche la vittoria era applicazione della legge e non anche una questione di principio e di prestigio all’interno della società.
Nel processo a Locri, raramente il giudizio era lasciato al libero convincimento del giudice, che il più delle volte emetteva un giudizio vincolato.
La ragione di una simile norma era duplice: si evitava un processo che non era certamente lungo, ma che richiedeva tanta attenzione; l’accordo tra le parti impediva una sorta di acrimonia che sempre una lite giudiziaria portava con sé. Ma non è la sola. Quasi sicuramente le controversie giudiziarie determinavano rancori non facilmente assopibili. Chi perdeva una lite provava dell’astio sia contro il suo avversario sia contro il Magistrato che aveva emesso la sentenza, tanto che vi è una previsione analoga in favore dell’arconte, laddove si invitavano i polites a che nessuno deve riguardare come nemico irriconciliabile quel cittadino chiamato dalle leggi ad aver parte alle cariche della repubblica.Quello dell’obbligo del tentativo di conciliazione è uno dei cardini di differenziazione del processo a Locri rispetto alle altre poleis: Atene come punto di riferimento. Il Magistrato a Locri doveva essere investito della possibilità di trovare un accordo tra le parti.
È ipotizzabile che a Locri questa procedura fosse valida solo per la materia di iniziativa privata e non quella di iniziativa pubblica, per la ragione che vi è una letteratura indiretta a prova sicura di quanto affermato. Ma anche perché non si può negare che la dizione e la ratio delle leggi a Locri depongono in tal senso. La pena a Locri è certa, determinata e severa. Difficile pensare che l’adulterio potesse essere perdonato dal marito tradito e così la moglie, che poteva perdonare l’illecito in cambio magari di un beneficio materiale, perché “all’adultero e all’adultera cavar si debbon gli occhi”.Trovare la possibilità di mediazione in una simile violazione di legge è difficile. Inoltre, lo stesso episodio (mitologico o meno, ha poca importanza, nascondendo sempre il mito un fatto) che vuole che Zaleuco abbia comminato la condanna alla cecità per il figlio adultero, con la sola mitigazione che essendo due gli occhi da cavare, uno viene cavato al figlio e l’altro al padre, da punire per non avere saputo insegnare al figlio il rispetto delle leggi, depone per una non disponibilità del privato del diritto di punire il reo e punirlo severamente (la mancata punizione, dice il Proemio, incoraggia la violazione della legge).
Se ciò è vero, la conciliazione era solo per la Dike, le iniziative processuali di natura privata.
Infine, va fatta un’ultima e importante considerazione in materia processuale sulla non rilevanza dell’elemento psicologico. Questo anche quando l’oggetto del contendere era, magari, la semplice violazione contrattuale, non determinata dalla volontà del soggetto. La semplice violazione della legge integrava il delitto e poco importava che non ci fosse dolo o colpa. L’episodio, leggendario o meno, sulla fine di Zaleuco, riportato nelle norme che vietavano di entrare armati nel Buleterio, ne è prova. Il primo che ha effettuato una riforma sul punto è stato, lo si è detto, Dracone, discepolo di Zaleuco, che ha introdotto l’ipotesi di omicidio preterintenzionale. La ragione non stava in un’evoluzione della struttura del reato, ma nella pratica considerazione che un pugile, un lottatore o altro, durante il combattimento poteva causare la morte dell’avversario, ma anche l’uccisione involontaria di un commilitone (oggi, diremmo colpito da fuoco amico). Da qui la cautela nel combattere. La legge di Dracone stabiliva che la morte non era conseguenza della volontà omicida ma andava oltre l’intenzione. La punizione che attendeva il colpevole non era, tuttavia, lieve, perché seguiva la condanna all’esilio per non meno di cinque anni .Infine, qualsiasi fosse l’oggetto della causa (dike o grafai), le sentenze non erano appellabili ed erano definitive.

Foto: atopon.it


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