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Costume e SocietàLetteratura

Il bazar del malaffare

Storie d’altri tempi


Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Marco immaginava anzitempo il commento dei compaesani che avrebbero considerato il rapinatore come un uomo di straordinaria intelligenza.
Dall’altra parte della piazza, al Bar Primavera, tutte le mattine Nicoletta era solita aprire alle sette ma, quella volta, al suo posto, c’era una quindicenne, figlia di sua sorella.
Fera stava per mandare giù il caffè quando vide uscire dall’ambulatorio medico la Signora Nicoletta; il suo fare era tipico di chi aveva qualcosa da nascondere. Per Marco fu chiaro che la donna fosse andata dal medico per una visita particolare.
Poco dopo che Nicoletta entrò nel bar, la nipote guadagnò l’uscita e si mosse in direzione di casa. La ragazza fece appena in tempo a girare l’angolo che l’ufficiale sanitario uscì dall’ambulatorio ed entrò nel Bar Primavera. Dalla parte del municipio veniva giù Mario, nipote di don Angelo. Era come se tutti avessero appuntamento al Bar Primavera; uno alla volta, i componenti del solito gruppo guadagnarono l’ingresso del bar. Non passarono che pochi minuti e fece la sua comparsa Osvaldo, in compagnia della giovane di Norimberga. Il gruppo era quasi al completo, mancava all’appello solo Teodora. Lo sguardo di don Angelo si posò su Osvaldo e sulla donna: a onor del vero, più sulla donna che su Osvaldo. Don Giulio, notando lo sguardo interessato di don Angelo, si girò verso la piazza ed ebbe così modo di apprezzare uno dei tanti capolavori della Creazione. Anche Fera non poté fare a meno di ammirare la giovane donna che camminava a fianco di un uomo molto più grande di lei.
Marco avvertiva una notevole stanchezza fisica e così decise di rientrare a casa. Saldò il conto, salutò don Angelo e don Giulio e si avviò verso la Guzzi Zigolo 110 che stava sul cavalletto a un paio di passi dal bar. Un colpo secco sulla leva della messa in moto e dal tubo di scappamento uscì un fumo bianco che, serpeggiando, andò a collocarsi sotto il telone a strisce bianche e rosse del bar. Era un gas maleodorante e stuzzicò a tal punto le narici e la gola del prete che incominciò a tossire, tanto da divenire così rosso in faccia da sembrare un papavero; imprecò contro Fera e mancò poco che non si mettesse a bestemmiare. Alla fine della piazza, Marco imboccò la via che lo portava verso casa.
La Guzzi scoppiettava a causa della candela che doveva essere sostituita da qualche tempo. Fera non badava ai sussulti della moto, il suo pensiero era al foro che lo avrebbe portato al cospetto della cassaforte contenente i presunti cinquecento milioni di lire che stavano lì ad attenderlo.
Quella sera, la lanterna che da sempre ha ispirato gli innamorati, non era presente nel cielo. Era arrivata l’ora di recarsi nella cantina dove lo aspettava il proseguimento del lavoro iniziato la sera prima. Inforcò la bicicletta e mosse verso il cancello; Argo gli andò dietro in assoluto silenzio, lui si chinò e baciò il cane sulla fronte. Prima di salire attivò la dinamo, poggiando la parte ruotante sul copertone, per alimentare il faretto posto poco sotto il manubrio. Il buio pesto lo obbligò a farsi luce fino alle prime case del paese dove iniziava l’illuminazione pubblica. La fioca luce dei lampioni non permetteva a Marco di vedere bene la strada, tanto che temeva di prendere qualche buca. Non aveva fatto che una cinquantina di metri dal primo lampione quando accadde ciò che temeva: la ruota anteriore della bicicletta finì nel bel mezzo di una buca facendolo cadere per terra. Avevano avuto la peggio il gomito e il ginocchio sinistro.
Marco, una volta a terra, incominciò a imprecare contro gli amministratori comunali che, a parer suo, badavano solo agli affari propri, facendo prendere i lavori alle loro imprese  di fiducia e ai tecnici progettisti che facevano parte della loro cerchia. La cosa più deplorevole era che, quando parlavano, dalla loro bocca uscivano solo parole di legalità e di onestà.
L’esempio più clamoroso di tale corruzione era stato il ragioniere del Comune, un certo Filippo La Farina. Il ragioniere, da sempre, era stato in combutta con i vari sindaci susseguitisi nell’arco dei quarant’anni che aveva prestato servizio al Comune, se di servizio si potesse parlare. Era così radicato in lui il malaffare che speculava su ogni cosa: dalla fornitura degli arredi fino alla carta igienica.
Per fregare la collettività truccava i conti con la complicità dei fornitori, i cui interessi erano basati sulla vendita a prezzo un pò più alto rispetto al reale.
Il sistema era di facile applicazione: quando ordinavano dieci risme di carta, nella contabilità ne riportavano cento. Una scrivania che non superava il valore di 100.000 ₤ era fatturata 500.000. Il Municipio era, nella sostanza, una sorta di bazar del malaffare: altro che riparazione delle buche…
Stava per arrivare la notte del furto all’ufficio postale.
Durante il pomeriggio, in un angolo del giardino, Marco preparò una buca che sarebbe servita per sotterrare le tre damigiane di vetro contenente il denaro proveniente dal furto. Una volta ultimato lo scavo, passò a controllare le due piccole bombole che contenevano acetilene e ossigeno.

Continua…


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