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Costume e SocietàLetteratura

La pena del laccio

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri

Edil Merici

Di Giuseppe Pellegrino

È duopo, prima di entrare in merito alla legislazione zaleuchiana, sia sulle norme certe sia su quelle attribuite al Nostro, fare chiarezza su un pregiudizio in relazione alla durezza della legislazione locrese, che prevedeva nella pena capitale l’uso del laccio, ossia del cappio. Sulla durezza rispetto alle altre legislazioni si dirà norma per norma, con una sorta di diritto comparato per lo stesso delitto con Sparta, Atene, e anche oggi. Si vedrà che la stessa agressività veniva usata nelle altre legislazioni.
Ma il vero pregiudizio sta nell’affermazione che quella del laccio era l’unica pena conosciuta a Locri. In particolare la studiosa Vania Ghezzi, nella più grande opera pubblicata dalla Dike, I Locresi e la legge del laccio,da una certa aneddotica che, nel corso del nostro trattato, sarà chiamata in causa direttamente, soprattutto per le affermazioni Polibio e Demostene, in cui di fatto conclude con il richiamo dell’obbligo di presentarsi con il laccio per chiunque volesse cambiare le leggi approvate e stabilite, al fine di sancire il principio.
Quello di applicare alla legge di Zaleuco una rigidità oltre la normale esigenza della tutela della polis è un vizio di coloro che non solo bistrattano la normativa conosciuta, ma si avventurano su ipotesi del tutto fuorvianti.
In Giappone, alla data odierna, la legge del laccio è applicata in modo assiduo, non lasciandosi a colui che ha errato nessuna opportunità di riabilitazione. Così Silvio Piersanti, in un articolo che lascia esterrefatti sul Giappone:

Compassione e Perdono sono sentimenti poco praticati [in Giappone, ndr.]. Chi sbaglia paga. Le promesse di non ripetere l’errore non vengono prese in considerazione. La pena è dura e certa. Anche quella di morte, che viene amministrata in modo particolarmente crudele: il condannato viene chiuso nel braccio della morte senza che sia comunicato, né a lui, né ai suoi famigliari, quando salirà sul patibolo. Può restare nella cella anche molti anni. Poi il suo ultimo giorno verrà: il ministro di giustizia firmerà il documento che autorizza l’esecuzione mediante impiccagione e il condannato varcherà la soglia della sua cella per l’ultima volta. La famiglia lo saprà solo quando riceverà l’avviso di andare a ritirare un pacco all’ufficio postale con le ceneri del condannato, cremato a spese dello Stato.

Il principio della tutela delle leggi si vedrà nelle norme di Zaleuco singolarmente prese e raffrontate; ma si vedrà la stessa tutela in altre poleis. Qui, siccome sembra presupporsi che l’unica pena conosciuta a Locri fosse quella del laccio e che solo a Locri si comminasse una pena di questo tipo, si vuole in modo più limitato osservare che la natura delle pene, non solo a Locri, ma in tutta la Grecia, era di tre tipi: la morte, l’ammenda, l’esilio. Vi è anche la detenzione personale, che era una sorta di riduzione in schiavitù, temporanea o definitiva, ad Atene, per il ladro, l’adultero preso in flagranza di reato, e così via. Questo tipo di pena era di iniziativa privata. Ma tale pena a Locri era inammissibile, per la semplice ragione che vi era il divieto per ogni locrese di avere schiavi e schiave; anche in via temporanea e soprattutto al fine di lucrare.
Nella legislazione di Zaleuco emergono, anche per la limitatezza delle fonti, 14 frammenti e parte del Proemio, solo due tipi di pena: la morte e l’ammenda. Parlare di detenzione è del tutto irrealistico, se le prime carceri sono romane e per reati più politici che comuni (vedi il caso di Quinto Pleminio o di Vergingetorige). Per le altre affermazioni fatte dalla stessa autrice sia sui Cosmi, i Kosmopolidi e le altre magistrature locresi, si rinvia alle singole voci, non accettandosi in modo assoluto la comune discettazione in materia, alla quale l’Autrice si riporta.
È possibile che la norma abbia un fondamento di natura semitica, tuttavia, in modo singolare, tale divieto di eseguire la pena di morte in modo incruento (rectius: con spargimento di sangue) è generale sia presso i greci sia presso gli stessi romani. È bene precisare, come meglio si chiarirà nel prosieguo, che molte delle previsioni dell’Antico Testamento sono state mutuate dalla cultura religiosa egiziana; e in particolare dal Libro dei Morti; che, invero, nella traduzione non ha fedeltà all’originale, perché dovrebbe essere intitolato Libro dei vivi dato che in concreto si parla della vita eterna o di quella vita dopo la vita. Si pensa che anche la concezione di un Dio Unico sia di origine egiziana. Specificatamete si fa riferimento al Faraone Achenathon, accusato di eresia, per aver tentato di sostituire i numerosi Dei con uno solo: il Dio Sole. La forte influenza egiziana sugli Ebrei è testimoniata dall’ Antico Testamento quando si accenna alla fuga dall’Egitto.
D’altronde la ritrosia a spargere sangue nelle esecuzioni vige anche oggi in parte, se negli Stati Uniti dalla camera a gas si è passati alle iniezioni letali, che hanno la caratteristica di essere molto più crudeli dell’impiccagione, che dura pochi minuti, mentre i dolori e gli spasmi dei veleni durano, come documentato, anche qualche ora e più.
In questa discettazione, la Bibbia ci è di grande aiuto. In detta, si parte dal presupposto che il sangue è legato ai processi vitali e come tale rappresenti l’anima:

Ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro, che mangi di qualsiasi specie di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò la faccia e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite (…).

Non diversamente al verso 17-11. Dove si afferma che:

Poiché la vita della carne è nel sangue.

Dalla Genesi si ha qualche dettaglio in più:

Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo.

Ancora:

Del sangue vostro anzi, ossia dalla vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello.

Qualcuno da questi principi, ha voluto trarre il principio che siccome la vita è nel sangue esso, per la Bibbia, rappresenti l’anima. Sommessamente non è vero. In nessun passo della Bibbia si fa cenno all’anima. Certamente il sangue è la vita e nessun uomo può impunemente versarlo; neppure quello degli animali, se non per restituirlo a Dio.

GRF

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