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Costume e SocietàLetteratura

Matrimonio e adulterio nell’antica Grecia: rituali e normative

Edil Merici

Di Giuseppe Pellegrino

A Locri la donna sposata veniva chiamata compagna di desco, e non legittima compagna di letto. Nel mondo greco antico non esistevano i termini marito e moglie: a parte i poetici pósis, di incerto etimo che stava per sposo(ma indicava anche la bevanda) e dámar, che stava per sposa, ma che derivava da dámazo, che sta per sottomettere,per designare i coniugi si usavano vocaboli generici indicanti l’uomo e la donna.Le conseguenze sul piano dell’adulterio non erano poche, ma la donna non era neppure oggetto di repressione, perché la questione riguardava solo il marito e l’adultero. Tale fatto generava la moicheia (adulterio), che di fatto era una lite privata che poteva sfociare anche in una vendetta sanguinosa. Ciò, soprattutto, anche alla luce delle previsioni della Legislazione di Dracone, oltre che sull’omicidio preterintenzionale, su quello dell’omicidio legittimo.
Invero, in tutta la Legislazione greca la posizione dell’adultera sembra del tutto ignorata; non viene presa in considerazione neppure sotto l’aspetto della punibilità in qualsiasi modo del suo comportamento. Le leggi miravano in effetti a proteggere il matrimonio legittimo e la successione legittima con figli di padre e madre certi.
In concreto, sotto l’aspetto meramente formale, il rito dello sposalizio (gámos)si esternava principalmente nel trasferimento della sposa dalla casa paterna a quella del marito. Il trasferimento era preceduto da un triplice evento. Il rito del taglio dei capelli per il quale la fanciulla offriva a una divinità (Era, che rappresentava la maturità o Artemide, che rappresentava la giovinezza) alcune ciocche dei suoi capelli, a simboleggiare l’abbandono dei valori dell’infanzia legati alla capigliatura lunga e l’ingresso nella condizione adulta. Il giorno precedente alla cerimonia avveniva il rito della la loutroforia, il trasporto dell’acqua per il bagno, da parte di un corteo notturno, alla luce delle torce e al suono dell’aulòs (flauto); essa aveva lo scopo di portare nella casa di ciascuno dei futuri sposi l’acqua lustrale destinata al bagno nuziale, che simboleggiava la purezza o purificazione della donna per la cerimonia. Per altri, simboleggiva l’augurio per figli sani e belli con riferimento ad Afrodite (per Locri si veda un rito non dissimile, ma più concreto e più raffinato). Il terzo è importantissimo elemento era la cerimonia di ricezione dei doni offerti alla sposa (progàmia dera, doni per lo sposalizio), che concludeva i riti da eseguire la vigilia delle nozze.
La mattina del matrimonio vi era la vestizione della sposa con gli abiti adeguati; seguiva il rito del banchetto festoso (eialapìnes) offerto dal padre della donna (prima o dopo la cerimonia). Sopraggiunta la sera si formava un corteo di famigliari e giovani che cantando, danzando e recando fiaccole, accompagnavano il carro su cui aveva preso posto la sposa. Per qualcuno, il matrimonio si perfezionava con la materiale consegna formale da parte del padre della sposa allo sposo. In concreto avveniva che il padre prendeva la mano della figlia e la metteva in quella dello sposo. Di tanto invero vi è un retaggio formale nel matrimonio ai giorni nostri per il quale il padre accompagna le figlia fin davanti all’altare e qui la consegna allo sposo per la celebrazione del matrimonio.
Sorge qui l’esigenza di fare un rapidissimo excursus sul matrimonio e l’adulterio presso i Greci, con riferimento alla normativa arcaica e a quella di Dracone che rappresenta, sotto molti aspetti, un punto di riferimento per tutti. Dopo l’età di Pericle si insinua un altro elemento per la punizione dell’adultero: la necessità che il rapporto sessuale avvenga esclusivamente tra soggetti di uno stesso gènos; per cui, l’adulterio tra un cittadino e una straniera non trovava neppure una disciplina di alcun genere. Dunque, l’importanza del matrimonio e la tutela degli interessi dell’οικòs (della casa), che spesso andava oltre il fatto privato, ma sconfinava nell’interesse pubblico.
Solo la donna ottenuta secondo le regole metteva al mondo figli legittimi, gli unici che avevano diritto alla successione. Quanto allo sposo egli poteva avere anche una concubina (che di fatto veniva comperata, o era frutto di bottino di guerra, a differenza della sposa che veniva omaggiata di doni), che poteva tenere anche in casa, con i figli illegittimi, che alla sua morte ricevevano la cosiddetta quota del bastardo, cioè non una porzione del patrimonio, che veniva diviso in parti uguali tra i figli legittimi, ma uno o più beni determinati. Nasce così la necessità di chiarire le modalità del matrimonio, ma soprattutto le ragioni fondmentali dello stesso presso i greci. È chiaro che nella ipotesi che legittima compagna di letto e concubina convivessero, si stabiliva una gerarchia che, si diceva, regolata dalla timé, cioè dall’onore (ma in greco, timé significa anche prezzo), o più concretamente dal rispetto che era dovuto a chi occupava in casa una posizione legittima.
Per dirla come lo Pseudo Demostene in un celebre passo dell’orazione Contro Neera, l’uomo ateniese poteva avere tre donne: “…le etère per il piacere, le concubine per il servizio quotidiano, le mogli per generare figli in modo legittimo e avere una custode fidata delle nostre proprietà.

Redazione

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