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Costume e SocietàLetteratura

Corsa contro il tempo: una commedia d’azione sull’asfalto

Storie d’altri tempi

Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Marco bussò ripetutamente sul vetro posteriore della cabina. Dopo vari tentativi, Rocco capì che doveva smettere di rompere con il clacson.
Liberatosi mentalmente dell’uso del segnalatore acustico, inserì la quinta marcia. L’ape prese a correre a ritmo sostenuto, prendeva le curve come se fosse un’auto da rally.
«Madonna mia aiutaci!» esclamò mastro Filippo.
Salvatore, con il palmo della mano, incominciò a battere sul vetro. Rocco, anziché rallentare, aumentava la velocità.
Marco suggerì a Salvatore di non picchiare sul vetro, perché aveva il sospetto che Rocco percepisse la cosa come un invito a fare presto ad arrivare al pronto soccorso.
Finita la discesa, c’erano dieci chilometri di strada con tre sole curve.
Il sole era alto nel cielo e faceva sentire il suo calore sulla testa degli occupanti il cassone. Mastro Filippo versava in un lago di sudore, nel contempo invocava la madre come naturale aiuto psicologico. Quando lo stavano adagiando sul cassone, la moglie ebbe la preveggenza di mettere nell’angolo un termos pieno di acqua fresca: durante il viaggio, il liquido vitale servì ad abbassare la temperatura corporea del mal capitato.
Il motore dell’ape fischiava come il treno all’approssimarsi delle gallerie; Rocco era concentrato sulla guida come un pilota di Formula 1.
A un paio di chilometri dal primo centro abitato, che si trovava lungo la Strada Statale, Salvatore tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto e con il braccio alzato lo mise a sventolare al vento come segnale d’emergenza.
L’Ape correva oltre i 120 km/h, quando furono affiancati dalla civetta della polizia stradale. Marco colse la palla a balzo e iniziò ad agitare le braccia in segno di emergenza.
I due agenti vedendo il modo di fare del giovane, capirono che chiedeva aiuto. Rapidamente si accostarono all’ape e Salvatore indicò con il dito che c’era una persona che aveva bisogno di arrivare con urgenza all’ospedale. I poliziotti attivarono i lampeggianti e contestualmente le luci furono seguite dal sinistro suono della sirena. Con l’auto della polizia che li precedeva, l’ape si lasciò dietro il serpente di case senza alcun intoppo.
Dopo sette chilometri, finalmente arrivarono nei pressi del pronto soccorso. La sirena destò il personale paramedico che si precipitò fuori.
Due infermieri si avvicinarono all’Ape e chiesero cosa fosse successo.
Marco, precipitosamente, disse: «Fate presto, un serpente ha morso il capo mastro!»
Nel sentire quelle parole, uno dei due mosse per recuperare una barella. L’infermiere, dal corpo scheletrico e dal volto sciupato, tirò dalla tasca del camice un laccio emostatico e strinse la gamba di mastro Filippo poco sopra il ginocchio in modo da impedire la risalita del veleno. Un medico dai capelli bianchi e dalla pancia pronunciata, apparve in fondo al corridoio. Una volta che mastro Filippo fu adagiato sul lettino, il medico tolse la benda che copriva il polpaccio ed esaminò i due forellini. 

Capì immediatamente di cosa si trattasse, tanto che rivolgendosi a mastro Filippo, disse: «Ringraziate Dio per il fisico che ritrovate, se foste meno robusto, domani sarebbe il giorno del vostro funerale.»
Mastro Filippo sentiva dei dolori fortissimi alla gamba. Aveva una sete come se fosse in pieno deserto, i crampi gli attanagliavano l’arto, il cosciente venne meno e fu sopraffatto dal delirio.
Il medico ordinò di procedere con la flebo. Dalla stanza accanto entrò un’infermiera di nome Pina. L’infermiera proveniva dallo stesso paese di mastro Filippo e discepoli; dopo essere stata assunta all’ospedale, si trasferì dal paese per andare ad abitare a un paio d’isolati dal nosocomio.
La donna riconobbe mastro Filippo e lo salutò. Lui non rispose, giacché intontito dal veleno dell’aspide.
Rivedendo l’infermiera a distanza di anni, Marco prese atto con tristezza che il tempo aveva scalfito senza pietà la sua bellezza.
L’infermiera, con destrezza, trovò la vena del braccio sinistro di mastro Filippo e inserì un ago con una farfalla di plastica alla cui estremità c’era un piccolo giunto bianco fatto in modo da poter inserire un tubicino di gomma trasparente, che andava a finire nella bottiglia contenente un liquido incolore.
Il medico, da un piccolo frigo, prelevò due fialette di siero antivipera. L’ago della siringa perforò il tappo di gomma colore marrone e in pochi secondi ispirò il contenuto. Rivolta la siringa con l’ago verso l’alto, fece uscire l’aria. Poche gocce di liquido seguirono nell’aria un percorso parabolico prima di finire sul pavimento. Il medico accostò l’ago al tubicino di gomma, tra la vena e la farfalla, e iniettò lentamente il siero antivipera.
Rocco rimase fuori vicino all’ape, il colore pallido della morte gli caratterizzava il volto, mentre Marco e Salvatore, fuori della saletta del pronto soccorso, cercavano, attraverso la porta socchiusa, di sbirciare dentro la stanza dove stava mastro Filippo.
Un quarto d’ora dopo la porta si aprì sotto l’azione della barella, mastro Filippo era coricato con la gamba fasciata fino al ginocchio.

Redazione

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