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La salvezza della Locride passa dal recupero della memoria

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri I - “Ci fu un tempo in cui la Locride e la Calabria non erano solo terra di ‘ndragheta”. Partendo da questo assunto, Giuseppe Pellegrino ripercorre la storia della cosiddetta Repubblica dei Locresi di Epizephiri, che dà il nome a una rubrica che pubblicheremo a partire da oggi.

di Giuseppe Pellegrino

Non mi stanco mai di ripetere in quasi tutte le prefazioni che faccio nei miei libri, posto che questa è la ragione della mia ossessione, che arriva sempre nella vita di un uomo il momento in cui non riesce vedere davanti a sé alcun traguardo: nella professione, nei rapporti sociali, nella vita, a volte. Ecco che, in questo caso, è bene fare tesoro di un detto spagnolo che recita: “Se non riesci a vedere il futuro davanti a te, torna indietro e ripercorri la strada del tuo passato, così almeno, se non sai dove andrai, saprai da dove vieni.”
È pur vero che, come diceva Sören Kierkegaard, “La vita va vissuta in avanti”(poi, però, aggiungeva:“Ma può essere capita solo all’indietro”).
E così, quando la conta dei miei anni andava inesorabilmente a finire e non riuscivo a fare un bilancio della mia vita; a dare una ragione alle illusioni e alle aspettative che avevo creato inutilmente, mi son messo a guardare alle mie spalle e cercare di essere testimone del mio tempo, che non è stato necessariamente l’arco della mia vita, ma il tempo che di sicuro ho vissuto nel tempo.
Era il 26 agosto del 1950 quando, a 42 anni, in una stanza dello storico albergo Grand Hotel, situato nella città dei suicidi illustri, Torino, Cesare Pavese, che il fascismo aveva regalato per qualche tempo alle spiagge di Brancaleone, ha deciso di porre fine ai suoi giorni con trenta bustine di Nembuthal, lasciando il suo testamento morale in due foglietti che furono trovati appena il proprietario dell’albergo, afflitto da una calvizie incipiente, con un passepartout, aprì la stanza, che ancora oggi è rimasta tale e quale e affittata a turisti curiosi. Del primo foglietto si seppe subito e c’era scritto: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. E non furono molti quelli che trovarono la similitudine col foglio scritto e lasciato dal poeta Vladimir Majakovskij, suicidato da ignoti nel 1933 nell’Unione Sovietica.
Del secondo, indirizzato a un amico, si seppe solo a fine 2004. In questo vi era scritto: “Leucò (Luce, ndr.) è immortale per i ricordi che ha, per i ricordi che lascia”. Dove Leucò (rectius, Leucotea, troncata in Leucò), a parere dell’autore, è la Luce (l’uomo, anche se al femminile) e il resto la memoria storica.
Successivamente, in aggiunta, si può citare una riflessione di Umberto Eco sulla legalità. In concreto, il Professore sostiene che “Il principio della legalità può passare solo attraverso il recupero della memoria storica”.
Già molto tempo prima, uno dei più illustri figli della Calabria, giustamente sconosciuto, perché la Calabria non ama i suoi figli migliori, Salvatore Gemelli, primario del Reparto di Geriatria nell’ospedale di Gerace-Locri, affetto anche lui dall’angoscia di trovare il proprio passato, sosteneva:

Non esiste maggiore sventura per un popolo
che ignorare la propria storia; senza di questa,
né ripresa di coscienza, né alcuna rinascita
Civile e Morale potrà essere attuata.

Se così è, la fine delle traversie di questa terra sventurata può (o forse deve) passare attraverso il recupero della memoria per far sapere agli altri, ma soprattutto ai Calabresi stessi, che ci fu un tempo in cui la Locride e la Calabria non erano solo terra di ‘ndragheta.
Perché è cosa certa, vi fu un tempo in cui la Locride, e Locri in particolare, godevano del rispetto del mondo che si specchiava nel Mediterraneo, grazie anche a una particolare legislazione che fu da esempio nel mondo ellenico e fu trapiantata letteralmente nella costituzione di Turi, Reggio Calabria e, in parte, anche di Atene, e di cui le stesse Leggi delle XII Tavole hanno rimembranze. L’elemento di novità nella legislazione locrese non era tanto nella presenza di norme repressive, impropriamente dette draconiane, o il fatto che la norma fosse scritta, ma nella previsione per ogni singolo precetto della pena e anche, se non soprattutto, che la repressione e l’applicazione delle leggi apparteneva allo Stato, alla polis, e non era oggetto di giustizia privata, se non nelle modalità, come anche nella illustre Atene (furto; omicidio legittimo).
Fino al tempo di Zaleuco, infatti, se il divieto o precetto era certo, la sanzione era lasciata al libero arbitrio dei giudici, che si diceva fossero αυτογνοτοι (autognotoi)ossia avessero in sé la conoscenza. È intuibile che ciascun giudice usasse un parametro diverso da un altro le cui convinzioni potevano o meno collimare con le decisioni del suo predecessore. La cosa era ancora più devastante alla luce del fatto che la carica di un magistrato aveva una durata limitata (un anno, in genere) e la sua funzione ricoperta per sorteggio. La novità rivoluzionaria fece esclamare ai più che solo a Locri vi era certezza nelle leggi.
Ma la memoria storica non è il forte dei Calabresi e il resto d’Italia, per nostra esclusiva colpa, questo passato lo ignora.

Foto: turismo.reggiocal.it

Redazione

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