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Costume e SocietàLetteratura

L’incontro con Don Ciccio e il ricordo di nonno Francesco

Stasi XIX - Francesco Rossi viene accolto in coma magna da Don Ciccio Paterno, che gli mette a disposizione un’ampia zona della sua meravigliosa tenuta. Rimirando lo splendido agrumeto, l’imprenditore di Reggio Calabria torna con la memoria alla sua infanzia, domandandosi quali potranno essere gli sviluppi della sua operazione commerciale.

Di Francesco Cesare Strangio

Francesco Rossi e l’uomo dal fazzoletto rosso fermarono la macchina a una certa distanza dall’ingresso del palazzo. La signora Contessa aveva espresso divieto assoluto di avvicinarsi troppo: l’odore della benzina combusta la disturbava.
Rossi era esterrefatto da quanto aveva visto.
Gli venne spontaneo domandare se i proprietari si trovassero in casa.
Il suo accompagnatore gli rispose che il Conte e la Contessa abitavano a Napoli e tornavano solo in decorrenza delle festività. In ogni caso vi era il fattore che amministrava i loro interessi.
Dal lato sinistro del palazzo apparve un omone sui sessant’anni con dei baffoni, un vestito di velluto marrone e una coppola dello stesso colore.
Uno di loro esclamò: «Quello è il fattore, Don Ciccio Paterno».
L’uomo arrivò e salutò Rossi con una stretta di mano.
Si vide subito che lì rappresentava l’autorità dei suoi padroni.
Fece accomodare l’imprenditore dentro a un grande salone, arredato con austerità, dove di solito ospitava le persone che andavano lì per affari. I due dell’auto si allontanarono andando verso l’agrumeto.
«Eccoci qua!», esclamò Don Ciccio. E chiese cosa gli poteva offrire prima di pranzare.
Rossi rispose che gli andava bene qualunque cosa.
Don Ciccio fece portare dalla domestica una bottiglia di vino invecchiato di vent’anni. Si avvertì dall’odore che si trattava di un vino speciale, che di solito si offre agli ospiti di riguardo; e Rossi era un ospite di riguardo.
Don Ciccio domandò se fosse di Reggio Calabria centro: cosa che gli fu confermata. Il fattore disse di conoscere bene la città, giacché la buonanima di suo padre era di Reggio.
La cosa piacque a Rossi e lo portò a pensare che fosse sulla buona strada.
Il fatto che Don Ciccio traeva origini dalla città dello Stretto gli dava un notevole vantaggio sulla trattativa dell’acquisto degli agrumi. E così fu: aveva intuito giusto!
In Don Ciccio prevalsero i ricordi della sua infanzia, il fatto che proveniva dallo stesso quartiere in cui abitavano i parenti di Rossi, ove lui stesso aveva trascorso buona parte della sua fanciullezza, gli spianò la strada a tal punto che ottenne un prezzo di favore e, inoltre, non pretese nemmeno l’acconto di rito.
Don Ciccio insistette che il suo compaesano pernottasse da loro.
Quando entrarono nel salone da pranzo, vide la moglie del fattore, una donna sui cinquant’anni di nobile portamento, e la figlia seduta su di una sedia ricoperta di velluto marrone finemente lavorato. Rossi ammirò i suoi delicati lineamenti da miniatura, la sua vellutata carnagione e le forme perfette che la facevano assomigliare a una dea della mitologia.
La domestica servì per cena un leggero antipasto con sottaceti di carciofini e cetriolini messi a macerare nell’aceto con dei peperoncini relativamente piccanti. Fu servita una minestrina come primo piatto e, per secondo, dei piccioni arrosto.
Finirono la cena degustando del passito bianco accompagnato da dolci a base di mandorle.
Dopo la ritualità del pasto, le due donne presero commiato e, nell’andare, la giovane donna lasciò dietro di sé un lieve profumo di violetta che aggiunse un nuovo incantevole particolare al suo fascino.
I due uomini si accomodarono sul terrazzo che dominava la valle, Don Ciccio Paterno parlò a lungo della storia di quei luoghi; citando più volte Federico II di Svevia.
Verso la metà della notte, Don Ciccio accompagnò Rossi nella camera degli ospiti augurandosi che fosse di suo gradimento.
Poi aggiunse: «Se riscontrate qualcosa che non è di vostro gradimento fatemelo sapere, ci tengo a fare bella figura».
Rossi sorrise ringraziando Don Ciccio per la gentilezza che gli riservava.
La camera era qualcosa di grandioso, sia per le sue dimensioni sia per l’arredamento.
Una volta rimasto solo, animato dalla curiosità, fece uso dei suoi passi per apprezzare le reali dimensioni di quel vano.
Il risultato fu stupefacente: nove di lunghezza e otto di larghezza, aveva all’incirca settantadue metri quadri.
Sulla parete antistante il letto, vi era un caminetto di riguardevoli dimensioni sulla cui base, rigorosamente in marmo pregiato e intarsiato, poggiavano due Cariati che reggevano la mensola anch’essa in marmo della stessa qualità.
La porta finestra dava su di un piccolo balcone che si slanciava sulla tenuta, permettendo agli ospiti di apprezzare la bellezza e le varie sfumature del paesaggio.
Il canto del gallo annunciò l’alba del nuovo giorno, ponendo fine al verso dei gufi che, dall’alto della loro postazione turbavano i sogni degli uomini.
Rossi, destatosi dal sonno della notte, si avviò claudicante verso la toilette.
Finito quanto fanno gli uomini quando si recano in un tale ambiente, si mosse verso il balcone da cui poté ammirare il paesaggio.
Rimase ammirato dai riflessi dei primi raggi di sole che risaltavano l’infinito agrumeto.
Nel mentre ammirava il meraviglioso paesaggio, si presentarono alla mente i racconti del saggio nonno Francesco.
Tutte le sere d’estate, dopo aver consumato la cena, si avviavano abitualmente sul terrazzo che dava sullo Stretto; lì prendevano corpo i racconti, tanto da far passare il nipote nel mondo dei sogni. Il nonno, compiaciuto, prendeva di peso il bambino e lo accomodava nel suo lettino.

Foto: villazottopera.it

Redazione

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