Bruno Pelaggi: il Pasquino Calabrese
Di Davide Codespoti
Chi è di Roma o dintorni, avrà sentito nominare almeno una volta in vita sua il termine pasquinata, che è sinonimo di canzonatura, presa in giro dei potenti. Ciò deriva dalla statua di marmo, risalente al III secolo e posta in Piazza Pasquino, dove nottetempo anonimi romani appendevano cartelli sui quali erano scritti versi satirici e dileggianti verso i potenti della Roma papalina, primo fra tutti il pontefice, seguito dai cardinali e da alti prelati. L’obiettivo era denunciare i soprusi, le ingiustizie e la corruzione del governo dell’epoca, che infatti temeva molto gli anonimi autori delle pasquinate come possibili agitatori politici.
La figura di Pasquino è inoltre stata magistralmente interpretata nel film Nell’anno del signore, ambientato nella Roma del 1825, dall’attore Nino Manfredi, il quale, se di notte dileggiava il governo papale con i suoi versi, di giorno era conosciuto come Cornacchia, il ciabattino che si faceva passare per analfabeta ed era deferente verso i prelati.
Pochi però sanno che anche la Calabria ha avuto un proprio Pasquino: si chiamava Bruno Alfonso Pelaggio (1837-1912), nato e vissuto a Serra San Bruno, da tutti chiamato mastro Brunu per la sua professione di scalpellino, tipica della cittadina calabrese oggi in provincia di Vibo Valentia. A differenza di Cornacchia, però, mastro Bruno era davvero analfabeta, ma è stato recentemente rivalutato come uno dei massimi cantori dialettali calabresi: lo scalpellino serrese, infatti, nonostante non sapesse né leggere né scrivere, componeva di giorno poesie in dialetto durante il suo lavoro, per poi dettarle la sera alla figlia maggiore, che invece era andata a scuola e che spesso si scandalizzava per i toni e le parole spinte usate dal padre nei suoi componimenti.
Effettivamente le poesie di Pelaggi contengono tutto il furore dell’indipendenza e della libertà, oltre che della giustizia umana e sociale, scagliando voci di protesta contro la tirannia dei potenti corrotti e incapaci, vera origine della sofferenza della Calabria e della sua gente. Mastro Bruno ne dettò moltissimi, quasi tutte pungenti, moraleggianti e critiche su temi sociali (come quella sulla luce elettrica di Serra San Bruno, dedicata all’amministrazione comunale di allora, da lui ritenuta incapace di realizzare efficienti opere pubbliche), o contro personaggi politici di rilievo, come l’avvocato serrese Bruno Chimirri, deputato e Ministro della Giustizia dal 1891 al 1892.
I versi variavano dalla satira all’invettiva, fino alla denuncia sociale vera e propria contro la corruzione, gli sprechi e l’arroganza del potere e dei governanti, per la quale mastro Bruno non si capacitava di come Dio potesse permettere che accadessero simili infamie. In particolare, due invettive sono degne di rilievo per le parole di ribellione e di sdegno per la povertà e la miseria nelle quali versava il popolo calabrese: quella contro Umberto I di Savoia, re d’Italia, e addirittura quella contro il Padreterno.
Nei confronti del sovrano, sordo alle richieste del suo popolo vessato e maltrattato, lo scalpellino calabrese sfogava il suo rancore attraverso un linguaggio scevro da ogni regola, manifestando addirittura un pentimento di dover far parte del Regno d’Italia. Nello stesso componimento vi erano anche accuse verso i deputati calabresi, accusati di vendere balle di promesse, salvo poi ingannare il popolo assieme al re. Ecco alcune quartine tratte dalla poesia A Mbertu Primu, che contava trentasei strofe:
Sempi lavuru e pani/carcàu lu calabrisi/ma tu sciali di risi/e cugghiunij.
E ancora:
Non spirari cchiù nenti/Calabria sbinturata!/Tu si’ dimienticata/pi nu’ tiernu/di Dio, di lu Guviernu/e di lu Ministeru.
L’altra poesia, intitolata Littira alli Patritiernu, assai più nota, consta di trenta quartine ed è rivolta al Padreterno, contro cui mastro Bruno protesta per la sua impassibilità e la sua indifferenza verso l’andazzo del mondo, mentre il popolo veniva sbranato dai lupi (metafora dei governanti, dei ricchi e dei preti).
Eccone un estratto:
Non bidi, o Patriternu/lu mundu mu sdarrupi/ch’è abitatu di lipu/e piscicani?/Priestu, mina li mani!/Vidi cuomu mu fai/manaja aguannu!/Non bidi ca ‘ndi fannu/muriri a puocu a puocu?/Tu ti mintisti dhuòcu/e stai mu guardi?
Così mastro Bruno Pelaggi sfogava il suo risentimento, senza risparmiare nessuno, neanche Dio medesimo, disinteressato alle vicende umane, con il fine ultimo di “far valere sulla terra il principio della più elementare giustizia”, che spesso i poveri e gli sfruttati non hanno, ricorrendo alla satira e all’invettiva come arma per denunciare i soprusi di cui sono vittime.
E in questo mastro Bruno fu insuperabile.