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Costume e SocietàLetteratura

L’ospite inattesa

I racconti della buonanotte XI

Di Bruno Siciliano

L’architetto Saro De Sanctis, ormai da alcuni anni viveva in quella villa da lui stesso progettata secondo i canoni più all’avanguardia della moderna architettura. La moglie, che l’aveva lasciato qualche mese prima, l’aveva definita l’acquario, essendo le pareti esterne della casa costituite essenzialmente da enormi cristalli. In effetti le grandi pareti trasparenti erano un ritrovato della moderna tecnica delle costruzioni e permettevano solo dall’interno di vedere fuori e non il contrario rivelandosi all’esterno degli enormi specchi che fungevano anche da pannelli fotovoltaici per dare energia a tutta la casa. Ma la signora De Sanctis prese la palla al balzo per abbandonare il consorte e correre a convivere col suo annoso amante in città. L’architetto aveva abbondantemente superato la sessantina, ma era ancora piacente e atletico e non gli si attribuivano più di una cinquantina d’anni. Nel corso della sua vita era stato un impenitente donnaiolo: tutte le donne per lui andavano bene, bionde, rosse, somale e nordiche e questa era stata, proprio come recita la Madama Butterfly di Giacomo Puccini un “Po’ per celia e un po’ per non morire”, la sua vita dai tempi del liceo in poi. Per tale ragione in casa, con la moglie, erano continue liti e continui abbandoni seguiti sempre da immancabili ritorni. Quella volta, però, donna Marta era stata risoluta e aveva messo fine a quel menage pur vissuto nell’agio e nel lusso più sfrenato. Non avevano avuto figli e anche quest era stato motivo di lite tra i due, che si attribuivano l’un l’altro l’impossibilità di procreare.
Le spese per la costruzione di quella villa erano state la ciliegina sulla torta dei contrasti famigliari, poiché il famoso architetto aveva quasi dilapidato, con le spese eccessive, l’intero patrimonio della coppia.
L’architetto De Sanctis aveva, dunque, continuato a vivere piacevolmente da solo nella sua tecnologica villa ai margini del bosco di pini e castagni sui monti del Pollino.
Quella notte un temporale terribile si era abbattuto su quell’angolo di mondo. La casa era però inondata solo dalla piacevole Sonata per pianoforte nº 8 di Ludwig van Beethoven mentre il raffinatissimo sistema di riscaldamento manteneva un piacevole tepore in tutta la villa.
L’architetto, sprofondato nella sua poltrona preferita, sorseggiava rum e leggeva il giallo che un amico intenditore gli aveva suggerito, Morte di un fumatore di Pipa di Bruno Siciliano.
Mentre fuori si scatenava la bufera, in casa regnava solo pace, calore e serenità.
Lo stridore disperato del citofono ruppe improvvisamente l’armonia della serata. La telecamera esterna inquadrò immediatamente la figura di una donna, una ragazza, che sotto la pioggia, nel buio della tempesta, era aggrappata al cancello e insisteva col pulsante del citofono: «Vi prego! Sono rimasta sulla statale con la macchina, fatemi entrare!»
La tempesta continuava ad accanirsi, nella zona, e i fulmini a tratti illuminavano la foresta circostante mentre i tuoni, violenti e vicinissimi, s’intervallavano a pochi attimi di silenzio che la pioggia riempiva violentemente con il suo scroscio incessante. L’architetto aprì il cancello e subito la ragazza percorse di corsa il vialetto per schiudere il portone d’ingresso e precipitarsi letteralmente tra le braccia dell’uomo appena questo aprì il portone della villa.
Era bagnata fradicia e fece il suo ingresso nella grande sala, che sembrò illuminarsi di colpo anche se i suoi bellissimi capelli neri, lunghi sulle spalle, grondavano acqua, e i suoi vestiti erano in uno stato pietoso.
L’uomo, sensibile più all’avvenenza della ragazza che al sentimento di pietà, l’accolse e la fece entrare a riscaldarsi, poi si precipitò in bagno e prese un ampio asciugamano che porse alla ragazza.
«Grazie e mi scusi per l’intrusione, ma la mia macchina si rifiuta di proseguire e ho troppa paura di passarci dentro la notte.»
«Non si preoccupi, purtroppo sono cose che succedono. Anzi, vada a farsi una doccia calda, troverà in bagno tutto quello che le serve» rispose l’architetto, accompagnandola verso il grande bagno. Poi andò nella stanza da letto, prese un maglione e un jeans della moglie e li appoggiò su di una seggiola nell’antibagno, ritornò in sala, prese un altro bicchiere, versò dell’altro rum e attese che la ragazza uscisse dalla doccia.
Splendida, come una venere uscita dalle onde, la ragazza percorse il corridoio e fece il suo ingresso nel salone, dove l’uomo l’attendeva. Lui le porse il bicchiere col rum, che lei prese con entrambe le mani, lambendo solo per in attimo quelle dell’architetto, che ebbe un brivido e abbassò, forse per la prima volta in vita sua, lo sguardo.

Lei si sedette sulla poltrona, di fronte al padrone di casa. «Allora mi dica, signorina, cosa le è successo?»
«Evita. Mi chiamo Evita: è un dono di mia madre, che si era innamorata della donna simbolo della storia dell’Argentina.»
«Sua madre è argentina?»
«Era argentina. Studiava all’università di Bologna, poi lasciò quando seppe di aspettare me. Mio padre non l’ho mai conosciuto, l’aveva abbandonata senza volerne sapere niente di me.»
«Come si chiamava sua madre?»
«Shania, s’è buttata dal quinto piano della clinica dopo avermi messo al mondo e mi ha lasciato solo questo.»
La ragazza tirò fuori dalla tasca dei jeans un ciondolo e lo fece vedere all’architetto.
Lui lo prese in mano ed ebbe un tuffo al cuore. Era un oggetto che lui conosceva bene, era stato per tanti anni il suo portafortuna ai tempi dell’università. Un ciondolo d’oro raffigurante una venere nascente dal mare, una miniatura, un gioiello di famiglia coniato dall’amante di una sua ava, regalatogli a sua volta da sua madre il giorno in cui lui s’era iscritto all’università di Bologna.
«Ho freddo» disse ancora la ragazza.
«Aspetta, vado a prenderti qualcos’altro» disse l’uomo alzandosi. Poi andò nelle stanze di sopra, raccattò una vestaglia di sua moglie e la portò alla ragazza che, intanto, aveva versato un’altra generosa razione di rum nei due bicchieri.
Quel ciondolo gli aveva risvegliato ricordi che lui sperava sepolti sotto valanghe di anni e innumerevoli momenti fatti di incontri con altre donne, gioie, dolori, vittorie e sconfitte.
Delle lacrime solcarono le guance del famoso architetto: certamente non era mai stato uno stinco di santo, ma il suicidio di Shania no, quello non l’aveva mai considerato. Terse con un gesto vago quelle lacrime mai evocate, che erano spuntate sul suo ciglio e ingollò d’un fiato il contenuto del bicchiere. Poi, con durezza, la ragazza continuò:
«Adesso hai un’ora per raccontarmi tutta la tua vita e per parlarmi di mia madre. Nel bicchiere ho messo una sostanza che in questo lasso di tempo ti darà la paralisi e, una volta arrestate le funzioni del cuore e del cervello, la morte. Ho bisogno di sapere, di capire perché un uomo abbandona una donna che dice di amare. Voglio sapere tutto del tuo egoismo, di come hai usato la tua squallida esistenza e dei falsi giuramenti che hanno lastricato la tua vita fino a oggi, il tuo ultimo giorno di vita.»
L’uomo restò inaspettatamente calmo, non ebbe nessun moto di paura o di disperazione, ma si risedette sulla poltrona senza smettere di guardare la ragazza.
«Un’ora è troppo, perché non c’è molto da dire. Eravamo giovani, eravamo incoscienti, si parlava di rivoluzionare il mondo, ma non avevamo dei veri pensieri.
«Tu hai i suoi stessi occhi, neri e profondi.
«Occhi che bucano l’anima e non ti fanno respirare. Noi c’eravamo innamorati e passavamo le serate insieme nel mio appartamento a studiare, fumare e fare l’amore. No, no è vero, facevamo solo l’amore e lei era speciale, di quelle che non si dimenticano mai. Poi un giorno scomparve e nessuno all’università la vide più. La cercai dappertutto per mesi.
«Non ho mai saputo che lei fosse incinta, non me lo disse mai.
«Mi stai ammazzando per niente. Non c’è una madre da vendicare e non hai davanti a te un mostro.
«Adesso sono io che ti devo un favore. Da anni sono stanco. A cosa è servito tutto quello che ho costruito? A niente. Erano i tempi in cui volevamo cambiare il mondo, avevamo speranze e progetti ma non siamo riusciti a cambiare nulla. Tutto è rimasto esattamente come prima e anzi siamo riusciti a rendere tutto peggiore e, adesso, sono veramente solo e attorno a me c’è solo gente indifferente o che addirittura mi odia. Ho cercato per una vita di fare del mio meglio, ma non ho ottenuto nulla. Sono stanco e annoiato, mi sento vecchio e mi consolo col rum e con la musica, ma è cosa breve, perché poi ritorna la tristezza, l’impotenza e la solitudine.
«La tempesta è passata, riprenditi le tue cose e vattene.
«Fra un’ora tutto sarà finito.»
«Ma io posso restare, ti posso dare un antidoto che ho qui con me, restiamo assieme, io potrei…»
Il famoso architetto si alzò dalla poltrona e abbracciò la ragazza, le diede un bacio sulla guancia come si fa con una figlia desiderata da sempre e la congedò. Lei, a malincuore, prese tutte le sue cose e uscì nella notte che sapeva di pioggia, lacrime e amarezza.
Il vecchio architetto si sedette di nuovo sulla sua poltrona e chiuse i suoi occhi stanchi mentre Claudio Abbado eseguiva magistralmente per l’ultima volta lo Stabat Mater di Gioacchino Rossini.

Foto: lamisuradellecose.com

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Redazione

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