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Politica

Non si confondano le cause e gli effetti


Edil Merici

Di Maria Concetta Valotta

L’attuale crisi di governo in Italia è stata definita dalle varie testate giornalistiche internazionali “assurda”, “inspiegabile”, “fuori luogo” o, semplicemente “strana”. In effetti, a provocare le dimissioni del Presidente del Consiglio è stata una serie di contingenze diverse che si stavano accavallando con una certa rapidità, mentre altri fattori arrivano da più lontano e hanno origine, in sintesi, nella natura eccezionale del Governo Draghi e della larghissima maggioranza parlamentare che lo sosteneva.
In queste ore, sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici, si stanno accavallando interpretazioni e letture diverse sulle responsabilità di quanto successo. I motivi che sembrano emergere sono essenzialmente due: il primo è che effettivamente queste responsabilità sono distribuite, seppur in misure diverse, sia su alcuni partiti che sullo stesso Mario Draghi; il secondo è che appena la crisi è sembrata probabile ogni partito ha cominciato a usarla e gestirla per addossare la responsabilità ad altri.
Far cadere un governo in un momento di generale emergenza non può essere sicuramente considerato un merito, in politica. A cadere è stato infatti un governo trasversale, di unità nazionale presieduto da un Presidente come Draghi, a cui da ogni cantone sono riconosciute  competenze e autorevolezza superiori alla media. Un governo creato per affrontare alcune circostanze straordinarie come la gestione della campagna di vaccinazione e il sistema operativo legato al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con tutte le riforme amministrative ed economiche collegate ad esso. Ma il 2022, con l’avvento e il protrarsi del conflitto in Ucraina, ha moltiplicato a dismisura i disagi e le difficoltà, a livello economico, energetico e sociale.
A contribuire al caos è stata anche la velocità con cui è precipitata la crisi di governo con una decisa e anacronistica imprevedibilità.
Inizialmente sembrava che a provocare il marasma fosse la scissione verificatasi nel Movimento 5 Stelle, che però alla fine sarebbe potuta anche potuta rientrare.
Nel giro di un’ora, però, quella del discorso di Draghi al Senato, la situazione si è ribaltata e a concretizzare la crisi è stato inopinatamente il centrodestra. Insomma: di quello che è successo dietro le quinte è trapelato e si è capito ben poco dall’inizio alla fine.
Usando (e forse abusando di) un paragone storico, tutto ciò ci porta a rammentare l’assassinio del generale romano Flavio Ezio, a metà del V secolo, che, dopo aver dimostrato sul campo di battaglia di essere l’unico in grado di fronteggiare l’invasione degli Unni guidati da Attila, per invidia, invece di ricevere i dovuti elogi, venne fatto trucidare dall’inetto Imperatore Valentiniano III. Ripiegando dall’interpretazione storica, alle cause scatenanti la caduta del Governo Draghi, è molto probabile che le forze politiche coinvolte nella crisi non la volessero davvero, ma una serie di avvenimenti mal controllati e di frettolose decisioni conseguenti, l’hanno resa inevitabile.
Il motivo scatenante è facile da individuare: la scorsa settimana il M5S aveva deciso di non votare la fiducia al governo sulla conversione in legge del decreto Aiuti, un provvedimento che contiene molte misure tra cui quella che dà al sindaco di Roma Roberto Gualtieri i poteri per costruire un inceneritore. Quella misura (così come alcune altre) non piaceva al M5S, che aveva protestato a lungo dopo settimane in cui aveva criticato anche altre iniziative governative, dalle armi inviate all’Ucraina alle discussioni sulle eventuali modifiche al Reddito di Cittadinanza e alle norme riduttive del cosiddetto Superbonus 110%.
Il governo aveva deciso di porre la questione di fiducia sul voto per il decreto, una decisione che azzera il dibattito e serve a costringere i parlamentari della maggioranza a decidere, in sintesi, se stare dentro o fuori il governo.
Il M5S aveva provato a evitare questa dicotomia e, in una certa misura, ci era riuscito.
Alla Camera aveva votato contro il decreto e a favore della fiducia, ma al Senato i regolamenti impediscono di esprimersi separatamente: perciò non aveva votato la fiducia, ma da subito aveva provato a spiegare che non equivaleva a un ritiro del sostegno al governo. Era insomma un modo per provare ad assestare un colpo, nella speranza che potesse servire a ottenere maggiore influenza e concessioni. Non è chiaro quanto il M5S avesse messo in conto che avrebbe potuto far cadere il governo: un’ipotesi che era sembrata molto plausibile quando la sera stessa Draghi aveva presentato le dimissioni, respinte da Sergio Mattarella che aveva deciso di dare alla maggioranza altri cinque giorni per discutere di una possibile soluzione, e di parlamentarizzare la crisi.
Ma quel voto sul decreto Aiuti non era arrivato dal nulla. Le ragioni più puntuali, infatti, erano inserite in un contesto che non era favorevole alla tenuta della maggioranza.
Il M5S è un partito in crisi ormai da alcuni anni e proprio sul sostegno al governo Draghi ha subito due scissioni: la prima, nel 2021, dell’ala più radicale che se ne andò in dissenso con la scelta di sostenerlo; la seconda, a fine giugno 2022, dell’ala più moderata, che faceva riferimento a Luigi Di Maio, che invece voleva un’adesione più convinta.
In mezzo è rimasto Giuseppe Conte, che dalla scorsa estate è presidente del partito e sta provando a recuperare consensi e rilevanza riavvicinandolo alle esigenze e ai sentimenti della base storica, investendo molto sul capitale politico e su alcune misure anche molto diverse tra loro come ispirazione, come il salvataggio del Superbonus e del RdC. Questo tentativo di recuperare consensi non è andato molto bene: Conte è infatti descritto da mesi come in difficoltà a tenere a bada le varie fazioni interne e il suo rapporto con Draghi, secondo le cronache politiche, non è mai stato granché buono.
In questo contesto l’alleanza politica con il Partito Democratico, altra decisione molto importante della sua presidenza, aveva restituito un primo pessimo risultato per il M5S alle elezioni amministrative di giugno, in cui il partito era andato male un po’ ovunque.
I recenti screzi con Draghi avevano insomma creato le condizioni perché Conte ritenesse giunto il momento di provare un qualche tipo di manovra divergente, accettando il rischio inevitabile di ulteriori fratture che quella manovra ha innescato con effetto domino, contribuendo e non poco al dissesto all’interno della maggioranza parlamentare.

Foto: investireoggi.it


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