Tra diritto di critica e reato di diffamazione
Le riflessioni del Centro Studi
Di Francesco Commisso
Nel nostro sistema giuridico la difesa penale è obbligatoria. Anche nei casi di evidenza della colpevolezza dell’indagato o qualora quest’ultimo abbia confessato crimini efferati (si pensi a una violenza sessuale su minore), l’avvocato non può esimersi dal difendere il proprio assistito. Alcune vicende giudiziarie, per la loro efferatezza, hanno interessato particolarmente l’opinione pubblica e sono diventati veri e propri casi mediatici. In questo modo, accanto al processo celebrato nelle aule di giustizia, se ne celebra uno parallelo nei salotti televisivi, o sui social media, dove a finire alla gogna mediatica non ci sono soltanto gli indagati, ma anche gli avvocati che li assistono. Quando un avvocato viene diffamato per il solo fatto di avere assunto la difesa di soggetti indagati di crimini efferati, che suscitano una grave disapprovazione sociale, viene lesa l’immagine e il decoro dell’Ordine Professionale di appartenenza o dall’Associazione di categoria cui è iscritto. A tali organismi, per poter assumere in maniera adeguata la tutela dei propri iscritti, va pertanto riconosciuta la legittimazione attiva a proporre querela nei confronti dell’autore della diffamazione patita dal singolo avvocato. Di tale avviso è anche la giurisprudenza di legittimità che, di recente, ha riconosciuto l’esistenza dell’onore collettivo, inteso quale bene morale di coloro che fanno parte di un’associazione. Seguendo tale orientamento giurisprudenziale andrebbe quindi riconosciuta, a giudizio di chi scrive, anche al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati o alle associazioni di categoria (Camera Penale, ad esempio) il diritto di proporre denuncia/querela contro la diffamazione subita dal proprio iscritto quando tale offesa sia idonea a ledere il prestigio dell’intera categoria. Così, ad esempio, se nello scritto offensivo viene fatto riferimento all’intera categoria forense come colpevole di assumere la difesa di soggetti indagati per reati socialmente odiosi, con un’inammissibile equiparazione del professionista al proprio assistito, in tal caso l’offesa non è rivolta solo all’avvocato esposto al pubblico ludibrio, ma all’intera categoria. È pur vero che il nostro ordinamento riconosce il diritto di critica come esimente del reato di diffamazione, ma essa opera soltanto qualora venga rispettato il cosiddetto criterio della continenza, ossia quando la forma espositiva sia corretta e non scada in una forma gratuita e immotivata di aggressione dell’altrui reputazione.
In linea teorica non esistono limiti alla libertà di manifestazione del pensiero ma, sicuramente, esula dal diritto di critica l’accostamento della persona offesa a cose o concetti ritenuti ripugnanti, osceni, o disgustosi, considerata la centralità che i diritti della persona hanno nell’ordinamento costituzionale. Pertanto, i commenti diffamatori nei confronti di un difensore, a causa dell’incarico professionale rivestito, possono finire per arrecare pregiudizio all’intera categoria quando il commentatore, partendo dal caso concreto, esprime giudizi negativi, generici e immotivati sugli avvocati che accettano la difesa di coloro che sono indagati per reati insidiosi. In tali casi, estendere il diritto di proporre querela all’associazione di categoria cui il professionista è iscritto significherebbe rafforzare la tutela dell’avvocatura tutta, perché solo una categoria forte e ben rappresentata può garantire la corretta tutela dei diritti inviolabili della collettività.
Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 28/10/2022