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Attualità

Diritto di cronaca, curiosità morbosa

Pensieri, parole, opere… e opinioni

Edil Merici

Una delle prime espressioni dialettali che ho imparato una volta trasferitomi nella Locride è stata l’interrogativo: “A ccu’ apparteni?”
Ritengo ancora oggi questa una delle espressioni più veracemente calabresi che abbia mai sentito, non solo perché, come ovvio, pronunciata in un dialetto deciso e tribale, ma anche per la pletora di significati che porta con sé. Il calabrese “A ccu’ apparteni?”, infatti, va decisamente oltre i banali “Come fai di cognome?” o “Chi sono i tuoi genitori?” con cui potremmo tradurre l’espressione in italiano, e trasmette quel senso di possesso e di identificazione che solo l’istituzione famigliare calabrese è in grado di portare con sé. Questo granitico senso di famiglia ha certamente contribuito a costruire l’immagine dello ‘ndranghetista totalmente asservito ai bisogni della famigghia spregiativamente intesa e convinto chi ha una visione superficiale (anche per il solo fatto di esserne osservatore esterno) delle dinamiche sociali regionali, che la forma mentis calabrese sia immediatamente assimilabile a quella mafiosa.
L’“A ccu’ apparteni?” che inevitabilmente emerge nelle conversazioni di approccio che quotidianamente si verificano tra le strade dei nostri paesi è portatore, talvolta, di una curiosità morbosa che, soprattutto nel caso di cognomi noti in città, permette di inquadrare in maniera piuttosto rapida (e anche molto sommaria) il nostro interlocutore. Non a caso, infatti, la domanda emerge spesso proprio in concomitanza con la citazione di un cognome noto e visti i frequenti casi di omonimia dei nostri piccoli borghi è sempre seguita dalla richiesta di specificare la zona di residenza, perché i cognomi che sono rispettabili in una contrada, potrebbero anche non esserlo in un’altra…
Nei miei interventi tra le colonne di questo giornale, ma anche in occasione di manifestazioni pubbliche in cui mi è stata data incautamente la parola, ho sottolineato più volte che se la dinamica informale delle nostre conversazioni ci consente di prenderci determinate libertà, al netto della sua natura spesso conviviale la rete raramente dovrebbe essere luogo preposto a fare lo stesso, soprattutto in situazioni che, per i motivi più disparati, potrebbero risultare particolarmente delicate.
In altre parole, l’“A ccu’ apparteni?” che può innocentemente essere pronunciato in una conversazione di piazza o in un contesto goliardico assume tutto un altro peso nel momento in cui si vuole mettere alla berlina un determinato individuo e diventa un macigno degno di Sisifo nel momento in cui assume la forma della domanda sottintesa a cui un articolo che intende rimestare nel torbido si impone di dare risposta.
Nel giorno dell’Epifania 4 vite sono state spezzate da un assurdo schianto sulla Strada Statale 106. 4 giovani di età compresa tra i 19 e i 35 anni, che avevano come tutti sogni e aspirazioni che meritavano di inseguire e di raggiungere, sono stati spenti da un destino beffardo che ha funestato per sempre le vite dei loro famigliari. Non ci serve sapere altro per comprendere la portata del dramma che ha investito la nostra comunità, per accendere una volta di troppo il pulsante della rabbia determinata dal fatto che si continui ad accettare supinamente l’inadeguatezza della Strada Statale 106, per domandarsi perché accadano disgrazie di questa portata. Sapere che le 4 vittime erano di San Luca è già un’informazione accessoria, utile solo a comprendere a chi indirizzare i sentimenti di cordoglio. Ma è evidente che per qualcuno, che oltretutto ha la possibilità di utilizzare le colonne di un giornale come un megafono utile ad amplificare la propria voce, queste informazioni non era sufficienti. Che qualcuno ha ben pensato che fosse diritto di cronaca rispondere alla domanda “A ccu’ appartenianu?” i 4 ragazzi di San Luca che sono stati strappati all’affetto delle loro famiglie e ritenuto giusto fare ipotesi (mi auguro almeno avallate da qualche testimonianza diretta) relativamente a dove stessero andando, così lontani da casa, in quel giorno di festa.
“Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri” scriveva George Orwell, una massima che, nel caso di specie, funziona perfettamente sostituendo l’espressione “vittime della strada” alla parola animali. Perché se a piangere i 4 morti di oggi fosse stata Locri, Reggio Calabria, Roma o, meglio ancora, Milano o Torino, sapere se i loro cognomi fossero comparsi in passato tra le colonne di nera e se stessero andando al parco piuttosto che a fare una rapina ci sarebbe interessato molto meno. Il morto di Milano sarebbe rimasto un morto su cui piangere anche se fosse stato un’ex galeotto. I morti di San Luca, invece, in quanto tali, pare che non stessero facendo una gita di piacere perché, del resto, erano portatori (poco importa se sani) di quei cognomi.
E chi si è arrogato il diritto di far emergere questi particolari a poche ore dalla tragedia, invece? “Illu a ccu’ apparteni?”

Foto: pixabay.com

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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