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Il mostro sacro della World Music Riccardo Tesi arriva a Caulonia

Dall’Ufficio Stampa Calabriacult

Riccardo Tesi è una leggenda vivente della musica. Organettista, fisarmonicista, band leader della Banditaliana, il musicista toscano ha collaborato con un numero impressionante di artisti di tutte le nazioni e di tutti i generi: da Fabrizio De André a Ivano Fossati, a Piero Pelù, a Gianna Nannini, a Ornella Vanoni. Ha suonato con i jazzisti (da Gianluigi Trovesi a Gabriele Mirabassi a Maria Pia De Vito), ha una lista di collaborazioni internazionali incredibile, che corre dalla Provenza all’Africa Nera.
L’appuntamento è per domenica 21 novembre, alle 18:45, all’Auditorium comunale Frammartino di Caulonia, dove l’artista si esibirà in un memorabile concerto con l’Orchestra del Mediterraneo a Caulonia nell’ambito della manifestazione Vox Populi.
Tesi mette subito in chiaro l’assoluta felicità di un’esperienza musicale unica: «È la realizzazione del mio sogno – racconta – trasmettere agli allievi quello che ho imparato, da come si fa un soundcheck a come si sta sul palco. I musicisti sono bravissimi e posso sbizzarrirmi nella scrittura». Del resto, secondo questo mostro sacro della world music «spesso la musica calabrese viene vista con un po’ di sussiego, invece ha una tradizione straordinaria, ricchissima e, quel che più importa, ancora viva.»
Insegni al conservatorio di Nocera Terinese, quindi in Calabria. Che rapporto hanno i giovani musicisti calabresi con la loro tradizione?
Insegno organetto diatonico e ho la fortuna di farlo proprio in Calabria, una delle regioni in cui la tradizione della musica popolare è più forte e più sentita; in più qui per i giovani è fonte di prestigio sociale, cosa rara nel resto dell’Italia. È un’esperienza innovativa ed entusiasmante. Molti giovani hanno già raggiunto un altissimo livello tecnico: io cerco di aiutarli a espandere il loro linguaggio e a uscire dall’ottica regionalistica.
Anche perché ti sei sempre distinto per le contaminazioni musicali.
Nasco con Caterina Bueno, quindi nell’ambito della ricerca etno-musicologica sulla musica tradizionale. Ma prima ancora – per passione – nasco con il rock (Jethro Tull, Bob Dylan, folk inglese). Ho cominciato a interessarmi alla musica tradizionale completamente da autodidatta, dalla tarantella al ballo sardo. Poi ho collaborato con artisti di tutti i generi, altrimenti non sarei mai potuto essere un musicista popolare: nascevo sotto un altro segno, perché mi piaceva anche il jazz. Ho collaborato con artisti di varie estrazioni, anche di altri paesi, in un susseguirsi di incontri che mi hanno trasformato. E, nel mio piccolo, spero di aver lasciato loro qualcosa.
Il dialogo tra diverse culture musicali è difficile?
A volte è stato difficile confrontarsi con pratiche musicali diverse: coi musicisti tradizionali usi solo orecchio e memoria; se suoni con i musicisti classici segui lo spartito, con i jazzisti invece lasci spazio all’improvvisazione. Anni fa ho realizzato il progetto Un ballo liscio con Mirabassi, Mauro Grossi, Piero Leveratto e altri. Le prove sono state difficilissime proprio perché c’erano in ballo tre attitudini diverse verso la musica: il quartetto d’archi voleva provare moltissimo, i jazzisti il meno possibile. Lì ho sofferto, dovendo mediare, ma ho imparato molto su come affrontare le cose.
Hai amato e frequentato il liscio, che spesso viene visto come una musica di serie B, né di ricerca, né pop o rock. Cosa ti ha dato?
Il liscio è stato una sorta di viaggio psicanalitico. Una parte della cultura italiana è sommersa dai pregiudizi, giudica secondo aspetti non musicali, ad esempio la classe sociale che consuma un certo tipo di musica piuttosto che un altro. Il liscio viene visto come musica non-nobile, non borghese, squalificata in partenza. Invece è una musica molto interessante: nasce nell’800 dal Valzer, dalla Polka, dalla Mazurka, che dalle classi borghesi scendono nelle classi popolari, a cancellare i balli collettivi del proletariato proprio nel momento in cui nasce la famiglia mono-nucleare. Oltretutto è interessante dal punto di vista melodico, perché sa essere anche virtuosistico. Il mio lavoro è stato valorizzarne la potenza melodica.
La musica dei neri americani è diventata mainstream in tutto il mondo (cosa successa anche alla musica indiana e a certa musica africana…), contrariamente a quella popolare italiana, che non è così mainstream. Secondo te perché?
È mancato il mercato. L’export italiano non è abbastanza potente. Non dimentichiamo che la musica africana è diventata famosa grazie all’Inghilterra, e lo stesso vale per il reggae. È solo un problema di potenza del mercato anglosassone. Personalmente, ho suonato in tutta Europa – in tutto il mondo – e ho vissuto il fenomeno della pizzica che è stata eseguita un po’ ovunque. Con la Banditaliana, poi, siamo stati headliner in Canada, negli USA e in altre nazioni.
Cosa vogliono da te i cantautori che ti chiamano?
Ho avuto la fortuna di avere a che fare con i miei cantautori preferiti e sono stato sempre libero di inventare la mia parte. Mi si chiedeva non di eseguire qualcosa, ma di mettere qualcosa di mio nel brano. Ad esempio, nella canzone L’angelo e la pazienza di Ivano Fossati, ho fatto un solo che poi, nelle tournée, con musicisti diversi è stato rifatto sempre uguale, su richiesta di Ivano al fisarmonicista di turno.

Redazione

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