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Costume e SocietàLetteratura

L’opera del chirurgo Milone

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri


GRF

Di Giuseppe Pellegrino

Aristonimo fu infastidito dalle grida della moglie che piangeva il marito ancora vivo e le intimò di smetterla e di preparare il letto su cui adagiare il fratello. La donna non capì subito, ma l’ira negli occhi del cognato fu evidente. Si diede da fare con le sue due ancelle. Antipatro fu portato dentro e adagiato su letto. Aristonimo pensò al prosieguo e chiamò un servo di cui ignorava il nome e imperiosamente ordinò:«Vai da Milone il chirurgo e digli che Antipatro ha urgente bisogno di lui e di portare con sé i suoi ferri. Se sarà solerte sarà compensato oltre le sue richieste!»
La casa di Milone era a Centocamere e il percorso non vicino, ma neppure lontano. Milone stava dormendo, come suo solito dopo ogni lauto pasto. Quando fu svegliato si adirò con sua moglie. Ma si calmò subito al nome di Antipatro e ancor di più alla promessa di ricompensa. Milone era un bravo chirurgo, ma esoso. Aveva esercitato in Grecia e seguito maestri illustri. A Locri era uno dei pochi medici, nonostante essi venissero guardati con favore dalla polis. Si considerava il migliore, dopo Democede, il sacerdote di Asclepio. Prese la sua borsa nella quale, oltre ai ferri, non mancava mai la propoli delle api. Il vino non era necessario, ma in un vasetto vi era un composto di cenere di lentisco, che disinfettava, insieme a grasso di vipera e acqua sacra. Milone non era magro e si rattristò a vedere che il servo era venuto a piedi. Cominciò a seguirlo con fatica e alla casa di Antipatro arrivò con il fiatone. Fu portato nella stanza da letto e non ebbe bisogno di delucidazioni. Subito il chirurgo prese il polso. La sue esperienza gli diceva che l’uomo era dissanguato, ma ancora vitale. Guardò la ferita e la freccia residua rimasta. Tirò un boccettina di ceramica lavorata e chiese una coppa e dell’acqua. Subito Clitennestra la portò e Milone vi miscelò una dose abbondante di liquido. Pian piano lo fece bere al ferito, che deglutiva con difficoltà e rifiutava la bevanda. Aristonimo capì e subito si mise a cavalcioni sul corpo del fratello poi con la mano destra fermò sul letto la mano sinistra dell’uomo e con la sinistra la destra. Milone chiese al servo che lo aveva accompagnato di tenere ferma la testa ed egli aprì di forza la bocca. Grande fu il dolore, ma Antipatro dovette ingoiare. Non passò molto tempo che un senso di impotenza pervase il ferito. Solo allora, Milone aprì la sua borsa e tolse un coltello a lama corta e un estrattore. Con la lama aprì di più la ferita e con l’estrattore tirò di strappo la freccia. Antipatro sentì tutto ma non riusciva a reagire in alcun modo. Lo squarcio fece riprendere l’uscita del flusso di sangue. La propoli fu il primo rimedio che il medicò applicò. Il secondo il miscuglio di cenere che coprì tutta la ferita da ambo i lati. Con le mani, Milone teneva stretta l’applicazione fin quando il flusso del sangue si fermò. Poi prese di nuovo il miscuglio di cenere, non prima però di avere tolta quella impregnata di sangue, lavata la ferita con vino e rimessa la propoli. Pian piano la cenere prese consistenza. Il medicò tirò delle bende di lino dalla borsa e fasciò tutta la ferita e il collo. Aspettò un qualche tempo. Poi nello stesso bicchiere che era servito per porgere la bevanda ad Antipatro fece immettere altra acqua. Vi versò lo stesso veleno che aveva somministrato per stordirlo e rivolto al fratello e alla moglie disse:«Che Asclepio vegli su di lui. Io di più non potevo fare. La ferita si rimarginerà, ma la voce forse è persa per sempre. I dolori dureranno qualche giorno. Non ha importanza se non mangia. Quando si risveglierà, se il dolore sarà ancora forte, dategli da bere questa acqua. Si sentirà stordito ancora qualche tempo, ma il dormiveglia porterà ristoro e pace.»
Così disse e si avviò verso l’uscio senza dire niente in ordine al suo compenso. Il suo lavoro lo doveva giudicare la famiglia onorando la promessa fatta a mezzo del servo. E Aristonimo non fu avaro. Aveva con sé un bisaccia da moneta e la diede subito al medico con la raccomandazione:
«Milone, ogni cosa che qui hai visto o che si è fatta in questa casa deve rimanere segreta.»
Milone assentì con la testa e un inchino, mentre soppesava a mente il contenuto. Ora ringraziava Asclepio di essere stato svegliato dal sonno.
Passarono i giorni e Antipatro migliorò. La sua vigoria ritornò nel corpo, non la parola. Questo lo aveva reso irritabile. Era il primo della Bolà. L’àristos più rispettato e temuto di Locri. Il punto di riferimento di Scipione e di Roma. La parola era essenziale, come un’arma in guerra. Antipatro era coraggioso, ma giammai avrebbe affrontato un nemico disarmato. E nel teatro di Locri la parola era l’arma necessaria. Non sapeva come affrontare i suoi avversari, che erano tanti. Soprattutto quella puttana di Elena, detta Nosside. Lingua tagliente come una lama. Le voci sul tesoro di Persefone ora stavano diventando un urlo e nessuno nascondeva la convinzione che dietro il furto di Pleminio ci fosse anche la nascosta accondiscendenza degli àristoi e di Antipatro in particolare. Per questo l’àristos non andava più a teatro. La moglie non si rendeva conto del danno di tale comportamento, che non sfuggiva a Aristonimo. Anche i figli di Antipatro cominciarono a capire. Per quanto il borbottio della gente si fermasse al loro arrivo, era chiaro che il riferimento era al padre.

Foto: blogspot.com


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