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Costume e SocietàLetteratura

L’autorità del magistrato

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri

Di Giuseppe Pellegrino

Sul principio generale della responsabilità del magistrato non sembra esserci niente. E tuttavia a una attenta lettura del Proemio di Zaleuco, i principi che abbiano enucleato, con particolare riferimento alla normativa di Thasos, appaiono ben delimitati. Ma appaiono chiari alla luce sia dell’esame preventivo del magistrato, sia di quello successivo.
Si riportano i principi per come trascritti dal giudice Bonaventura Portoghese e riportati nel Proemio alle leggi di Zaleuco, per come riportate da Giovanni Stobeo:

  • Proemio XII: Deve essere escluso dai pubblici impieghi colui che fa vincere la sua ragione dall’ira.
  • Proemio XV: Debbono tutti ubbidire alle leggi stabilite e permanenti. Nessuno deve stimarsi superiore a esse. Il decoro e l’utile è posto nel credersi inferiore e nell’eseguire il comando.
  • Proemio XVII: I Magistrati non siano ostinati, non giudichino per fare oltraggio, e nel dare le sentenze non abbiano presente né l’amicizia, né l’inimicizia, ma la giustizia. In tal guisa daranno giudizi giustissimi e si mostreranno degni del loro posto. Agli schiavi si comanda con il timore, i cittadini liberi con la riverenza e con l’onore; i magistrati dovranno mostrarsi tali che davanti a essi i rei debbono vergognarsi.

L’insieme delle norme, a prescindere da qualche interpolazione (il riferimento agli schiavi), vanno tutte nella direzione della responsabilità del Magistrato nel suo operato. Si capisce bene l’enucleazione fatta da Lene Rubistein allorché cita le possibili ipotesi di reato dei Magistrati in reati di omissione e reati di compromissione.
La prima cosa che il Proemio mette in evidenza è che tutti sono soggetti alla legge, arconti compresi (nessuno deve stimarsi superiore a esse).
La seconda è una punizione di ordine generale. Chi infrange la legge deve essere escluso dai pubblici uffici. Ciò vale per i Magistrati in carica, ma vale anche per i Magistrati che si accingono a prendere possesso di una carica. Si tratta, in concreto, del controllo preventivo (dokimasia, o verifica dei requisiti), in virtù del quale chi ha violato la legge non può essere poi il suo custode.
Poi il controllo successivo, che non era lasciato al Popolo, ma più semplicemente ai vari collegi di controllo anche contabile
(eutunai). Ciò per singole questioni, mentre per un giudizio generale era sicuramente la Dàmos a decidere, ma più concretamente la Bolà.
Si badi bene che questo tipo di controllo era nella pratica l’unico possibile. La carica era tratta a sorte e certamente l’uomo in carica non uno specialista. Non poteva, in conseguenza farsi una disamina sulle doti finalizzate a giudicare la capacità ad assumere la carica, ma solo esaminare le qualità morali (come l’abitudine a vendicarsi, e altro: I Magistrati non siano ostinati, non giudichino per fare oltraggio, e nel dare le sentenze non abbiano presente né l’amicizia, né l’inimicizia, ma la giustizia) e soprattutto la mancanza di precedenti giudiziari, nel senso che siano stati già sorteggiati in precedente occasioni con contestazione dell’operato, ma anche un tenore di vita da esempio alla cittadinanza (i magistrati dovranno mostrarsi tali che davanti a essi i rei debbono vergognarsi.)Non vi è traccia di incompatibilità di incarichi successivi nel tempo, se, ovviamente, sorteggiati nuovamente per la carica annuale, anche con le stesse funzioni. E tuttavia il sistema delle rotazioni tra le tre tribù, come il diritto di ogni demo di avere una rappresentanza, impongo di dare soluzione alla rotazione dell’incarico e, in conseguenza dell’esclusione della possibilità di ricoprire per due volte di seguito la stessa carica.
Anche la sanzione prevista nel Proemio è di ordine generale: Deve essere escluso dai pubblici impieghi colui che fa vincere la sua ragione dall’ira. Che era una sanzione preventiva (il divieto di ricoprire la carica), ma che poteva essere una sanzione successiva, se il Magistrato veniva accusato per un reato di omissione o per uno di compromissione, o per una qualsiasi manchevolezza che turbava agli occhi dei cittadini la nobiltà della visione della carica.
Altri tipi di sanzione, ammende o altro (che sicuramente erano previste) non sono conosciute, né si possono fare delle ipotesi ragionevoli. Si può solo ipotizzare che ve ne erano e anche molto severe, data la natura della legislazione locrese, ma di quale tenore non è possibile ipotizzare. Senza mai dimenticare che a Locri la legge del laccio veniva applicata per casi meno gravi.
A Locri tutte le magistrature di controllo erano collegiali (Un collegio è composto da tre persone; articolo 27 del Codice Civile) e nei giudizi di contabilità pura sono sempre in egual numero. Le ipotesi di composizione della magistratura per i reati degli arconti sono due: un collegio di tre giudici sorteggiati, come potevano essere i hierannomones per il tempio di Zeus. La seconda ipotesi, quella più certa per le analogie con il Senato romano, che non poche attinenze ha avuto con il diritto greco, è che è possibile ipotizzare che la Bolà si riunisse per una operazione di rendiconto o di reato commesso.
La Bolà, come analogamente il Senato di Roma, curava le relazioni estere; vigilava sulla sicurezza della città e controllava l’esercito. Spettava alla Bolà il controllo preventivo (dokimasia), la vigilanza e il controllo successivo o rendiconto (euthynos) sull’operato dei magistrati.
Nessun indizio di alcun genere porta alla conclusione di Aristotele che doveva essere il popolo di pubblica assemblea a giudicare. Ma in ogni caso, vista la struttura in genere dei controllori si deve ipotizzare la presenza di un collegio di tre magistrati. In concreto, per come già detto, a Locri era la Bolà a visionare il rendiconto. Detta era composta da 33 membri.

Foto di centrostudilivatino.it


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