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Costume e SocietàLetteratura

L’argomentazione di Tirso

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri


Edil Merici

Di Giuseppe Pellegrino

«Io non cercherò con l’arte oratoria di forzare le vostre convinzioni – proseguì Tirso. – Non guarderò negli occhi ciascuno di voi per lusingare la vanità del singolo e guadagnarmi il suo favore. Si dice, ma io non sono stato testimone, che l’Aeropago tenga ad Atene le sue discussioni di notte, perché l’arte e i gesti dell’oratore non possano influenzare la riflessione sulle cose dette, non su come vengono dette. Io non ho con me, come i sacerdoti egizi, l’immagine al collo della Verità, né chiedo a voi di promettere, come fanno i giudici del tribunale degli Eliasti, che giudicherete secondo le leggi, perché vi chiedo di cambiare una legge, seppure secondo le nostre leggi. E i miei occhi guarderanno la forca, che rappresenta in questo momento la forza delle leggi locresi e offrendomi, senza rimpianto a lei, se così vorrà il giudizio degli Dei e della Damos.»
Il giovane fece una pausa, come per riflettere, ma era chiaro che egli stava utilizzando la sua capacità oratoria, negando di farlo. E tuttavia, Tirso sembrava sincero. Fatta la pausa, continuò:
«Viveva un tempo a Sparta un uomo che la Polis oggi onora come un Dio. Diede alla città di Ares le sue istituzioni e le sue leggi. Onorò l’unione tra la donna e l’uomo tutelando la famiglia. Ma legiferò sul falso convincimento che proibiva alle donne sentimenti che agli uomini erano dati. Non proibì amori fuori del desco e non considerò figli impuri il frutto di tali amori. Anzi sostenne sempre che ogni vita nata sulla terra di Sparta era una vita che apparteneva alla patria ed andava tutelata alla stregua di un figlio nato dall’amore di uomo e donna uniti dal desco comune. Più di una generazione è passata da quando Minerva dettò le sue leggi a Zaleuco. Poche pòlis come Locri hanno costumi morigerati e dimessi. Donne di facili costumi se ne vedono poche che, rispettando le leggi locresi, ingioiellate e con vesti di porpora, fuori le mura cercano la vita. Ma io non vi parlo di donne di malaffare, io vi parlo dell’amore che ha travolto un uomo e una donna senza il tempo o la possibilità di sciogliere il desco comune, protetti dal favore di Afrodite. Non credo di provocare oltraggio a un uomo al quale mi univano convinzioni comuni e amicizia, ma Ilone non era uomo adeguato a Euridice. Dice il Facitore di Luce, che è cosa giusta e non oltraggia la pudicizia delle donne, che al pari degli uomini hanno sentimenti complessi, il desiderio di conoscere altri uomini. Ma la nostra legge vieta quello che noi chiamiamo adulterio ed è amore. Euridice ha pagato con la vita il rispetto delle leggi. Se io ho una grande colpa è quella di avere amato colei che più di ogni altra donna riempiva la mia testa, i miei pensieri, i miei giorni. Se questa colpa non è sotto l’egida di Afrodite, ma sotto la impudicizia sanzionata dalle leggi di Zaleuco, a voi il giudizio. Io ne subirò le conseguenze. Ma domando a voi, che siete i custodi delle leggi, che senso ha accecare un adultero, quando noi ogni anno a ogni primavera prostituiamo le nostre donne vergini, per pagare un tributo ad una colpa che nessuno di noi ha mai commesso.»
Tirso così finì il suo discorso, deludendo chi si aspettava il duello diretto con Zaleuco con un attacco veemente e pieno di invettive, come era nel suo stile, invece di un ragionamento equilibrato e accorato. A volte, anche giusto. Ma Tirso sembrava ora un uomo acquietato, senza desideri né obiettivi. Egli, invero, era terrorizzato dalla cecità, ma non aveva paura della morte. La cosa lasciò perplesso Zaleuco. E tuttavia, il Legislatore pensò che il suo compito andava oltre le persone, ma era finalizzato alla Pòlis. Perciò non fece grandi sconti al giovane. Era con la mente assente quando una voce gli disse:
«Tocca a te Zaleuco». Era la voce di Agesidamo.
Zaleuco si alzò molto lentamente dallo scranno. Volutamente rivolto verso il popolo mise la mano alla benda che copriva l’occhio sinistro e poi lentamente accarezzò il cappio che aveva al collo. Sapeva che i Locresi avrebbero capito. Ricordava così ai cittadini che non aveva privilegiato nessuno, neppure suo figlio. Sempre rivolto verso il popolo, il Pastore cominciò:
«Locresi, voi ricordate la vergogna di Aiace Oileo e l’oltraggio a Cassandra. Per quell’oltraggio i Locresi hanno sempre pagato un grande tributo per acquietare la Dea Minerva offesa. Voi sapete che se ogni anno prostituiamo le nostre figlie alla Festa della Sacra Prostituzione, ciò facciamo per riparare alla vergogna delle nostre madri che ci ha costretto a fuggire dalla madre Patria. Voi sapete che tutti noi siamo figli di schiavi e di servi. Voi sapete che abbiamo abolito la schiavitù perché i figli degli schiavi e dei servi possono essere solo schiavi e servi. Voi sapete la nostra nobiltà è stata salvata da chi poteva per discendenza imporre il nome ai figli…»

Continua…

Foto: studiahumanitatispaideia.files.wordpress.com


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