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Costume e SocietàLetteratura

Come la Repubblica ha perso il diritto di fissare il prezzo alla propria moneta

Le riflessioni del centro studi

Edil Merici

Di Salvatore Gullì – Avvocato del Foro di Catanzaro

La presa di posizione di cui abbiamo in precedenza parlato è stata giustificata dalla necessità di favorire un contenimento delle spese statali e un contenimento dei prezzi. A tal fine si è ritenuto di dover demandare esclusivamente alla Banca d’Italia il controllo (invero, come si evidenzierà, comunque oltre modo indiretto) dell’offerta di moneta. In questa sede non interessa discutere la tesi di autorevoli economisti secondo cui la stessa Banca centrale in concreto sia impossibilitata a governare minutamente il livello dei prezzi, attesa la circolazione di una quantità indeterminabile di moneta di formazione bancaria. Né conta evidenziare che, quali che fossero le intenzioni dei governanti del 1981, anche allora, come oggi, sia piuttosto la legge economica della domanda che determina i prezzi. Come che sia, di fatto, immesso nel mercato dei titoli alla stessa stregua di un comune soggetto, lo Stato, per finanziarsi, ha dovuto, da quel periodo, rendere appetibili i titoli pubblici mediante la promessa di pagamento di convenienti interessi. È impossibile negare che la spirale speculativa, attivata con la testé citata decisione di separazione, abbia provocato un accrescimento del debito pubblico. Si è detto che l’aumento degli interessi abbia indotto gli imprenditori a investire nell’acquisto di titoli di Stato a discapito degli investimenti di impresa. Altri effetti sono conseguiti: per contenere il debito pubblico è divenuto inevitabile sia ridurre le spese per i servizi pubblici sia aumentare la tassazione alle famiglie e alle imprese. Occorre peraltro evidenziare che nella nota inoltrata al Governatore Carlo Azeglio Ciampi, nel 1981, il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta abbia posto l’accento sulla “libertà di gestione dell’offerta di moneta” da attribuire in autonomia alla Banca centrale. Sul piano costituzionale, è innegabile che il potere governativo abbia subito un’essenziale modifica: si è insinuato, da allora, come emergerà da qui a poco, un indiretto condizionamento privatistico, senza che il Parlamento della Repubblica si sia mai, a riguardo, pronunciato. Può dirsi sia stato sufficiente un parere favorevole di esperti del Ministro del Tesoro affinché venisse operata una vera e propria rivoluzione politico-costituzionale. E infatti la collocazione dei titoli pubblici, finalizzata ad acquisire risorse utili nel pubblico interesse, comportava ormai un costo in termini di interessi da pagare, costo non più predeterminabile dal governo della Repubblica, e comportava inoltre un rischio di non riuscire a vendere i titoli pubblici onde poter finanziare il fabbisogno pubblico. È bene, in altri termini, ribadire (si tratta di fatti assodati) che, prima della separazione, era possibile far sì che i titoli statali mantenessero un tasso di interesse controllato e conveniente, per il fatto che, ove il mercato non li avesse acquistati, la Banca centrale sarebbe intervenuta in sostituzione dei mancati acquirenti. Lo Stato avrebbe pagato gli interessi alla Banca d’Italia, ma quest’ultima avrebbe comunque restituito al Tesoro gli stessi pagamenti; si sarebbe potuto quindi creare una vera e propria base monetaria proveniente dal canale del Tesoro e a costo zero per l’erario. Negli anni successivi, l’abolizione per le banche del vincolo di portafoglio e l’abolizione del massimale degli impieghi hanno contribuito ad alimentare un più ampio mercato finanziario privato. L’ulteriore stadio della finanziarizzazione dell’economia si è realizzato con la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali. Con l’ingresso dello Stato Italiano nella moneta unica, nel 1999, la Repubblica (fatto di portata epocale) ha perso la facoltà di fissare un prezzo a una propria moneta. Con l’Euro si è introdotto un cambio fisso fra i Paesi partecipanti al sistema e si è fra essi determinata, nel mercato valutario, la soppressione della legge della domanda e dell’offerta. Il trasferimento all’Unione Europea dei poteri sovrani monetari poteva considerarsi finalizzata a perseguire pace o giustizia, come espressamente autorizza l’articolo 11 della Carta Costituzionale? Non mancano, a riguardo, perplessità. Di primo acchito è facile dire che l’Euro non si prefigge finalità di pace, né finalità di sicurezza. L’Euro fa trapelare piuttosto l’intenzione di apparati tecnocratici di voler procedere verso un’integrazione politica europea. È tardivo interrogarsi se una scelta politica così fondamentale sia stata o no sufficientemente discussa e debitamente partecipata nelle sedi democratiche. Un’attenta indagine consentirebbe peraltro di riscontrare che i principi del coordinamento e della cooperazione fra le economie dei Paesi partecipanti all’Unione Europea, declamati diffusamente nei Trattati, siano stati finora inattuati, vigendo, piuttosto, una mercantilistica competitività pregiudizievole, soprattutto, per le classi economicamente più fragili, esposte a un destino di precarizzazione lavorativa. E infatti la moneta unica, abolendo per definizione, come accennato, il potere governativo di fissare un prezzo a una propria moneta (ormai inesistente), per conseguenza, ha eliminato le guarentigie ai beni prodotti in ogni singolo Paese dell’Unione.

Continua…

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 30/06/2023
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