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Costume e SocietàLetteratura

Come l’introduzione dell’€ ha cambiato le regole del mercato

Le riflessioni del centro studi

Edil Merici

Di Salvatore Gullì – Avvocato del Foro di Catanzaro

In Italia, in passato, nei momenti di crisi, la svalutazione della ₤, l’abbassamento cioè del suo prezzo, aveva favorito la convenienza dei residenti di Paesi non Italiani ad acquistare beni prodotti del nostro Paese. Era allora possibile esportare con più facilità prodotti nostrani a prezzi resi concorrenziali da un cambio favorevole. La forza della ₤ era data proprio dal minimo valore che essa era in grado di recare intrinsecamente, potremmo dire di auto-assegnarsi, così da divenire un veicolo di redditualità nazionale, a beneficio dunque dei cittadini Italiani. Deprivato di tale fondamentale potere di attribuire un valore minimo alla ₤, così da agevolare la vendita di merci di produzione Italiana, il governo della Repubblica si è perciò stesso auto-impedito di salvaguardare e di bene orientare l’economia nazionale. Ne sono derivate inevitabili conseguenze: reso fisso il cambio, per riuscire a mantenere competitivo il prezzo dei prodotti, si è reso necessario introdurre flessibilità, riduzioni salariali, mobilità, effettuare delocalizzazioni e licenziamenti. Si è insomma verificata una compressione di diritti economici e sociali. Ciò assodato, può dirsi che la decisione di partecipare a tale condivisione valutaria europea abbia consentito alla Repubblica di poter adeguatamente assolvere il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” stabilito dall’articolo 3, secondo comma della Carta? I politici hanno preventivato che la moneta unica avrebbe potuto far trapelare insanabili contraddizioni fra, da un lato, politiche di esportazioni competitive e, da un altro lato, politiche di asserita cooperazione economica? È indubbio peraltro che la decisione di aderire alla moneta unica abbia accentuato linee fiscali restrittive da parte del governo repubblicano che, per finanziare il proprio fabbisogno, aveva già dovuto aumentare le imposizioni tributarie e ridurre le spese per i servizi pubblici. L’adesione alla moneta unica ha prodotto l’ulteriore evenienza di un afflusso di capitali stranieri che hanno accresciuto i debiti dei privati verso l’estero. A riguardo, anche le stesse cognizioni giuridiche del legislatore sembrerebbe facciano fatica a delineare natura ed effetti di quest’ultimo fenomeno. I principi economici insegnano che una valuta forte renda convenienti le importazioni e costose le esportazioni e costringa a indebitarsi con l’estero per finanziare l’eccesso di importazioni sulle esportazioni. Consta poi che l’irrigidimento del cambio determini un rallentamento della produttività. Gli attenti osservatori della realtà economica hanno inoltre perfettamente compreso che non sia l’offerta di beni a stimolare la domanda, e che, al contrario, sia la domanda di beni che stimola l’offerta. Ed allora lo scopo da perseguire, improntato al corretto spirito repubblicano, avrebbe dovuto essere quello di far sì che la domanda di beni nostrani crescesse. A tal fine, la Repubblica, pur eventualmente conservando la volontà di voler aderire all’Unione Europea, aveva convenienza a mantenere una propria moneta. La teoria economica ha invero assodato che chi è esportatore netto di beni è, nel contempo, esportatore di capitali e che un saldo negativo delle partite correnti dimostri che un Paese abbia richiesto merci e capitali esteri. Non può sottacersi che il segno del decadimento di una nazione sia dato dall’accrescersi in-controllato dell’indebitamento con l’estero soprattutto da parte del settore privato. L’afflusso di capitali esteri rivela infatti una condizione di fragilità economica e un declino della capacità di risparmio e perciò un preoccupante impoverimento di un Paese. Tanto più quando sia carente la previsione di efficaci strumenti di riequilibrio. Preso atto di tutto ciò, c’è da dubitare che quando sia stata effettuata la decisione di aderire alla moneta unica si sia tenuto conto dell’importanza dello strumento valutario. A riguardo la teoria economica più accreditata ha costantemente insegnato che, per riportare in equilibrio la domanda e l’offerta, il prezzo della valuta debba poter oscillare costantemente. Era stato preventivato che, soppressa tale possibilità, per ovviare alla rigidità del cambio, un Paese sia in grado di conservare un certo grado di competitività soltanto diminuendo il costo del lavoro? Si è mai elaborata una decisa volontà politica di porre un freno a politiche economiche europee ispirate dal fine di una competitività sopravanzante ogni altro obbiettivo e basate sulla visione rigidamente mercantilistica secondo cui chi esporta è bravo e chi importa è cattivo?
Tale sfrenata competitività ha logorato le economie occidentali, penetrate dall’illusione che la liquidità finanziaria sia l’obbiettivo primario, illusione che ha indotto a dimenticare che le basi per mantenere le promesse e le aspettative, che tipicamente caratterizzano il mondo capitalistico, si pongono, da sempre, per sempre (e pur sempre), nell’economia reale. Si ha oltretutto la percezione che, negli ambienti politici dell’Unione Europea, si stia smarrendo la consapevolezza che l’aggressione finanziaria nei confronti di un Paese, incapace di riequilibrare gli scambi con l’estero, finisca, comunque, alla lunga, per ritorcersi contro lo stesso aggressore.

Continua…

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 30/06/2023
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