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Costume e SocietàLetteratura

Finalità rieducative e risocializzative della pena

Le riflessioni del centro studi


Edil Merici

Di Francesco Commisso – Avvocato del Foro di Locri

La nostra Costituzione dedica una sola disposizione al tema della finalità della pena, ossia l’articolo 27 comma 3, statuendo che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Quest’ultimo principio, a dire il vero, è apparso sin da subito di non facile attuazione, a essere eufemisti, perché la sanzione penale è sempre stata vista, sin dal codice Rocco, come esercizio della pretesa punitiva dello Stato evidentemente lontana dal paradigma delineato dal citato dettato costituzionale. È evidente, infatti, come il sistema vigente abbia sinora trascurato di curare l’aspetto riabilitativo e risocializzante della pena. Il modello cui s’ispira l’intervento penale nel sistema del codice, non solo nell’immaginario collettivo ma anche, purtroppo, nella prassi applicativa, continua a essere rappresentato dall’opporre un male al male; la necessità di approntare una risposta sanzionatoria al reato ha sempre prevalso sulla necessità della verifica dei contenuti di tale reazione. Sull’argomento già un secolo fa si soffermava l’insigne giurista e padre costituente Francesco Carnelutti, che, con riferimento al giudizio, affermava che esso “per essere giusto, dovrebbe tener conto non soltanto del male che uno ha fatto, ma anche del bene che farà; non solo della sua capacità a delinquere, ma anche della sua capacità a redimersi”. In particolare, volgendo lo sguardo al sistema carcerario e alla vita che in concreto in esso si conduce, apparirà evidente come le sue concorrenti funzioni di strumento di rieducazione alla società civile siano solo chimere.
L’Istituzione sembra in concreto rivolta a livellare e a inserire l’individuo, ormai anonimo, in una indifferenziata popolazione carceraria, con buona pace di quel trattamento individualizzato che, attraverso l’attività di osservazione della personalità e dei bisogni del detenuto, nonché attraverso l’individuazione dei mezzi migliori e più adeguati, dovrebbe invece condurre – anche – a un efficiente trattamento rieducativo. Il carcere, purtroppo, è un insieme regole, elementari nella loro rigidità, e imposte al detenuto che, più che indurlo a riflettere sul delitto commesso conducendolo alla resipiscenza, il più delle volte stimolano la necessità di sistemarsi nel miglior modo possibile, in una parola di sopravvivere. Il detenuto tipo appare quello che tra una domandina e l’altra, nell’attesa di incontri di pochi minuti, con l’agente di turno, con il direttore, con l’infermiere o l’educatore, o, infine, con il magistrato di sorveglianza o col suo difensore, incontri preceduti e seguiti da meticolose perquisizioni, intravede, fra uno, cinque o dieci anni, la speranza del trattamento e del premio. E sempre che, nel frattempo, non sia destinatario di un improvviso provvedimento di trasferimento che cancellerà inevitabilmente il suo percorso trattamentale e lo costringerà a ricominciare nuovamente l’osservazione.
Se questo è lo stato dell’arte, la funzione rieducativa della pena altro non è che un malinteso basato sull’idea del trattamento flessibile, per cui il detenuto potrà essere liberato anticipatamente se terrà buona condotta; buona condotta che non sarà, quindi, il risultato del trattamento cui è stato sottoposto ma lo strumento per convincere gli operatori che egli in effetti merita il premio, per ottenere il quale sarà spinto a porre in essere qualunque espediente possibile e si limiterà al compitino che, senza particolare sforzo, glielo garantirà.
È evidente allora la necessità di uno sforzo culturale che percepisca la contraddittorietà di una esperienza carceraria che spesso si limita a una mera segregazione, quando non condita da inutile e gratuita violenza che, altrettanto spesso, trova facile e frettolosa spiegazione nella irrecuperabilità e/o nella impossibile rieducabilità degli interessati. È chiaro che qualunque finalità di risocializzazione dovrebbe far leva sulla responsabilità personale dei detenuti, ma il carcere sembra mirare, e con metodo, al contrario. Ogni piccolo gesto dell’esistenza quotidiana è circondato da riti assurdi e umilianti, regolato da norme, si diceva, elementari e rigide, il tutto in un ambiente in cui impera la convinzione che la vita è solo quella che aspetta fuori: dentro c’è solo la consumazione dell’attesa e la gara per ottenere i benefici.
C’è chi ha sostenuto che l’unica vera riforma carceraria da effettuare sia l’abolizione del carcere stesso; certamente una provocazione che oggi si spera abbia trovato una reazione in alcuni istituti normativi introdotti dalla cosiddetta riforma Cartabia che, in effetti, pare precorritrice di novità in grado di poter incidere sul sistema penitenziario. Intanto, dopo anni di dibattiti, confronti ed approfondimenti letterari, sembra aver trovato finalmente sfogo la necessità del recupero di un dialogo con l’autore del reato nell’ambito del processo; un dialogo che, si dibatteva, andasse a superare la prospettiva che persegue la mera collaborazione alle attività di indagine, un dialogo aperto a una logica di composizione del conflitto.

Continua…

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 30/06/2023

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