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Costume e SocietàLetteratura

Storia di una casa e di una famiglia

Storie d’altri tempi

Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Marco si fece coraggio e proferì verbo: «Nonno, da domani percepirò lo stipendio.»«Vieni qua figlio mio, ti voglio dare un bacio.»
Il nonno baciò ripetutamente il nipote e lo benedisse. Alla notizia il padre si commosse e una lacrima gli solcò il viso, la mamma lo strinse a sé e lo accarezzò ripetutamente.
La piccola Maria, non capendo quanto stava accadendo, si fece coraggio e domandò: «È successo qualcosa di brutto?»«No, amore mio!»rispose la madre, prendendola in braccio.
«Marco da domani percepirà lo stipendio.»«Che cos’è lo stipendio?». Domandò incuriosita la piccola.
«Vuol dire che alla fine del mese porterà i soldi a casa.»«Così mi comprerà dei vestiti nuovi?»«Bravissima! Marco con i soldi ti comprerà le cose belle e in più ci aiuterà a imbellire la casa. Pensa, sarà lui il muratore che farà i lavori.»«Così sarà una casa grande e bella. È vero, mamma?»«Certamente!»La casa della famiglia di Salvatore, era situata all’inizio del podere, collegata al paese da una lunga strada in terra battuta piena di buchi che, tutte le volte che la percorrevano, dovevano stare attenti a non finirci dentro.
Per tutta la lunghezza, di oltre un chilometro, la strada era limitata da querce centenarie, che adornavano con sobrietà il paesaggio. La casa era un’opera architettata da mastro Peppino, zio di sua madre, arrivato da poco dall’Eritrea, dove svolgeva mansioni di capo squadra di un’impresa che realizzava fabbricati.
Salvatore aveva compiuto da poco nove anni quando la sua famiglia diede inizio alla costruzione della casa. Sembrava che i lavori non finissero mai. L’impasto del calcestruzzo era fatto a mano. Gli uomini attrezzati di badile giravano l’inerte, dopo averlo messo in un cassero di legno senza fondo che serviva per misurare la quantità necessaria per 1 m3 di calcestruzzo. Una volta tolto il cassero, mettevano sopra il mucchio dell’inerte 5 sacchi di cemento da 50 kg ciascuno. Iniziavano lentamente a girare e rigirare, mentre la mamma di Salvatore gettava, sul mucchio miscelato con il cemento, acqua con un secchio di ferro. Si continuava a girare fino a quando non si otteneva un impasto bene amalgamato. Per fare il getto dentro i casseri, avevano realizzato un palchetto intermedio su cui c’erano due persone attrezzate di badile che a loro volta mettevano il cemento, che gli arrivava da sotto, dentro le casseforme.
La casa, una volta ultimata, internamente era divisa da un tramezzo posto a metà della sua lunghezza. Una porta di legno massello, tinta di bianco, permetteva il passaggio da una camera all’altra. Il portoncino d’ingresso, anch’esso in legno, presentava una serie di crepe che il padre di Salvatore aveva riparato con della plastilina. Nella corte, dentro una casetta in pietra arenaria, il nonno aveva costruito, con mattoni pieni e fango, un forno a forma d’igloo; il piano di cottura era formato da pietre piatte chiamate prache. Le pietre non erano né arenaria, né granito; erano di colore nerastro che la gente del luogo le chiamava “pietre morte”, avevano uno spessore che variava dai 4 ai 6 centimetri a seconda della cava di provenienza. Appena dopo l’ingresso, con precisione sul lato sinistro della casetta in pietra arenaria, c’erano due supporti metallici che reggevano la maidda; prima la nonna e poi, per il naturale divenire, sua madre lì impastava la farina con il lievito per la preparazione del pane. Sul lato opposto vi era un piano fatto di assi di legno che poggiavano su due trespoli di ferro battuto. Il piano serviva ad adagiare il pane per farlo lievitare. Per facilitare il processo della lievitazione, mettevano delle coperte per mantenere il calore.
I pani, di circa 1 kg, una volta lievitati erano messi nel forno che nel frattempo aveva raggiunto la temperatura ottimale per la cottura: il tempo necessario e incominciava a liberarsi la tipica fragranza del pane appena sfornato.
Ancora caldo, era uso aprire un paio di piccole pagnotte e condirle con dell’olio di oliva extra vergine.
Salvatore, esonerato dal servizio militare, giacché gli avevano accolto la domanda in cui chiedeva di essere dispensato per motivi di famiglia, diede inizio ai lavori di ampliamento della casa. I tre figli maschi, notevolmente cresciuti, ebbero la necessità di un paio di camere in più.
Salvatore andava tutti i giorni a lavorare, al suo ritorno si dava da fare ben oltre il crepuscolo.
I sacrifici di tutti i membri della famiglia furono coronati con la realizzazione di un corridoio, due camere e un bagno. 
Fino a quel giorno il bagno era una baracchetta con un vaso che scaricava nel piccolo ruscello che proveniva dalla montagna e passava a poca distanza dalla loro casa, per poi, serpeggiando lungo le desolate campagne, terminare il suo cammino nel torrente Santa Venere.
Il divenire cancellava le giornate come fossero figli del nulla, lasciando spazio all’offuscata nebbia della speranza.
Una mattina, arrivati al cantiere, i discepoli non trovarono mastro Filippo sul posto di lavoro.

Continua…

Foto: foodblog.it

Redazione

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