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Marco Pandolfo: «Mio padre ha contribuito a vaccinare la società contro la mafia»

Sette colpi per sedare il dolore.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti fu questo il movente dell’agguato che strappò Domenico Nicolò Pandolfo all’amore della sua famiglia. L’esecuzione avvenne in pieno giorno, davanti all’ospedale di Locri, la mattina del 20 marzo 1993. A farne le spese, un uomo che gli americani avrebbero indicato come self made man, guidato fino al suo ultimo giorno da un senso del dovere che rende significativo persino il luogo in cui si consumò la tragedia. Il neurochirurgo ci provò a restare attaccato alla vita, ma fece in tempo solo a comunicare alle Forze dell’Ordine i nomi di chi gli aveva sparato prima di lasciare la moglie e il figlio Marco.
È con lui che abbiamo parlato di quella terribile giornata, di cui proprio oggi ricorre il il 28º anniversario.
Cosa ricorda del giorno che ha cambiato la sua vita?
Che ho appreso la notizia per vie traverse. I miei nonni erano a casa mia quando una zia telefonò perché aveva sentito da un telegiornale nazionale che un neurochirurgo aveva subito un agguato a Locri. Pochi minuti dopo venne un’auto a prenderci che ci portò all’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Lì ricordo il corpo di mio padre su un tavolo di acciaio, nudo, crivellato di colpi… e che vagavo senza meta per l’ospedale, sconvolto per aver perso un genitore assieme al quale avevo fatto progetti fino al giorno prima.
Il caso di suo padre è stato particolarmente drammatico perché ha sommato dolore ad altro dolore e dimostrato che il mandante era spinto da una furia cieca. Come ha metabolizzato quello sviluppo?
Io e la mia famiglia avevamo due strade da percorrere: quella della disperazione, che abbiamo battuto per ovvie ragioni nel primo periodo, o quella dell’assimilazione della tragedia per trasformarla in qualcosa di propositivo. Abbiamo così deciso di rifondare la nostra vita sui valori che mio padre mi aveva trasmesso, trovando un senso nel percorso che lui aveva effettuato. Questo mi è servito da sprone innanzitutto nello studio, perché mio padre mi aveva insegnato e dimostrato con la sua storia personale che, se si ha un sogno, bisogna studiare, impegnarsi e non farsi fermare dalle difficoltà. Solo così lui, figlio di fattori e unico dei fratelli ad aver proseguito negli studi nonostante i pochi mezzi a disposizione, era riuscito a diventare medico.
Nel percorso di “assimilazione della tragedia” ha incontrato Libera. Come è entrato in contatto con l’associazione e cosa pensa del loro impegno?
A Libera mi sono avvicinato nel 2013. Negli anni trascorsi dalla morte di mio padre non posso dire che ne avessi cancellato la storia, ma non nascondo di averla tenuta per me e la mia famiglia. Quando, nel 1992 vennero assassinati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non avrei ritenuto possibile che mio padre potesse rientrare nel novero delle vittime della criminalità organizzata. Lui non era un magistrato, un politico, un esponente delle Forze dell’Ordine. Con il tempo, tuttavia, Libera, l’unica associazione che ogni anno legge più di 1.000 nomi di persone che hanno perso la vita per mano delle mafie, mi ha fatto comprendere che tra quei nomi c’erano tante persone normali, che non facevano parte delle categorie comunemente considerate a rischio.
La giornata del 21 marzo deve continuare a essere celebrata per mantenere vivo il ricordo dei martiri della criminalità organizzata. Ma non pensa che, oggi che le mafie hanno mutato modus operandi, Libera debba in qualche modo rimodulare la sua azione sui territori?
Io credo che, nella sostanza, cambi poco tra la mafia che spara e quella che si insinua nei palazzi del potere. Per quanto riguarda la giornata del 21 marzo, per fare una similitudine, la criminalità organizzata è il Covid-19 e il ricordo è il vaccino. L’elenco dei nomi è un richiamo che tiene sveglie le difese immunitarie e che vale la pena fare ogni anno. In merito al cambiamento del modus operandi, il fatto che non ci siano più morti come quelle di Falcone o Borsellino, ma anche come quella di Graziella Campagna, Lollò Cartisano o Vincenzo Grasso, non cancella la pervasività del fenomeno, ma è un indicatore, piuttosto, della capacità delle mafie di nascondersi tra le pieghe delle istituzioni e, in definitiva, del loro essere diventate più subdole. Ecco perché ritengo che l’impegno di Libera debba continuare a essere quello di trasmettere alle nuove generazioni l’idea che le vittime non siano eroi, ma persone prese di mira dal malaffare proprio in virtù della loro normalità.
Il percorso di presa di coscienza della società, secondo lei, è almeno cominciato e, se sì, grazie all’azione di associazioni come Libera o per un effettivo cambio di atteggiamento da parte delle nuove generazioni?
Una cosa non esclude l’altra. Libera è stata un aiuto, ma ha trovato terreno fertile per una presa di coscienza di ciò che era accaduto, che sta accadendo e che potrebbe accadere ancora. Il fatto che le scuole siano più sensibili al tema fa sì che le nuove generazioni conoscano sempre di più e che sviluppino, per questo, uno spirito critico nei confronti del fenomeno.
Qual è il suo sogno per il nostro territorio?
Che la criminalità organizzata possa essere definitivamente sconfitta non è un sogno, ma una mia ferma convinzione. Oggi c’è maggiore consapevolezza di cosa siano la mafie e questo è un dato positivo non solo per gli adulti, ma anche per i giovani, che hanno dimostrato di aver compreso più di chi li ha preceduti cosa significhi stare da una parte piuttosto che dall’altra. È anche più facile comprendere che una persona non sia mafiosa solo perché appartenente a una data famiglia, clan o associazione, ma perché portatrice di una mentalità che deve essere tenuta sotto osservazione e che quest’ultima non in quanto corpo estraneo alla società civile ma, in quanto sua parte integrante, va raddrizzata, se vogliamo davvero migliorarci.
Insomma, aveva ragione Falcone…
Assolutamente sì. La mafia è un fenomeno umano che avrà una fine perché determinata da fattori umani. Un virus, come dicevo prima, che abbiamo dimostrato di essere predisposti a sconfiggere grazie a quel vaccino rappresentato da oltre 1.000 nomi di vittime innocenti che ci ricordano che, dopo ogni morte, c’è una resurrezione.

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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