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Costume e SocietàLetteratura

La disavventura di Antipatro

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri


GRF

Di Giuseppe Pellegrino

Con la freccia conficcata attraverso la gola Antipatro pensò per un attimo alla vendetta di Persefone. Egli non credeva nella Dea, seppure a Locri il culto fosse così intenso che nessuno dubitava del suo favore per la polis ma, soprattutto, nessuno dubitava della cura gelosa che la Madre poneva in difesa del suo tesoro. Il tesoro che aveva venduto ai Romani. Ma Sòpatro era sempre dell’avviso che quella ricchezza aveva salvato Locri. E se Persefone aveva a cuore la polis, non era stato commesso alcun sacrilegio. Invero, Sòpatro non faceva molte distinzioni tra il suo bene e quello della città. Per lui erano la stessa cosa. Da sempre, ciò che andava bene per gli àristoi, andava bene per la città. Perché l’uno dipendeva dall’altro. Perciò il pensiero di Persefone fu scacciato come molesto e si concentrò sul proprio dolore fisico.
In quel momento malediva di non aver visto in alcun modo chi aveva scagliato il dardo e neppure il punto di partenza. Il tiro era stato micidiale, ma l’uomo era stato fortunato. Sòpatro cercava di tirare la freccia, ma il suo fusto era sottile e robusto, ma non liscio, per cui era doloroso tirare, quanto inutile. Arrivò con un poco di ritardo Aristonimo. L’uomo era fratello di Antipatro, ma curava il taglio del bosco più in là. Sentì le grida dei servi con il rombo improvviso del silenzio, perché nessuna ascia più tagliava. Immaginò che fosse successo qualcosa, ma la vista superò ogni sua buia previsione. Aveva pensato a un albero tagliato ed a un carpentiere sbadato che era stato schiacciato al suo cadere. Un’imboscata non la aveva mai previsto, anche perché si era in pieno territorio locrese e non sul confine e tutti si sentivano al sicuro. Aristonimo non aveva la sottigliezza politica del fratello, ma più di lui sapeva affrontare in modo concreto le vicende. Il suo pensiero non andava oltre il domani, ma il domani sapeva organizzarlo in modo concreto. Non pensò di perdere tempo a chiedere chi fosse l’autore del misfatto. Capì subito che il tempo era un avversario e che nessuno era capace di affrontare la situazione. Ordinò, perciò, che fosse preparato subito un carro tirato da cavalli e non da lenti buoi. Adagiò con l’aiuto di tutti i tagliaboschi il fratello sopra, non trascurando di posarvi prima più di una coperta e un’ultima servì a coprire il fratello. Chiamò Ecateo, che subito rispose, e gli affidò il compito di sorvegliare il taglio per il proseguo, perché il contrattempo non poteva fermare il lavoro.«Mi risponderai con la tua vita, di ogni disattenzione», minacciò irato. E Ecateo sapeva quanto questo fosse vero e ne fu intimidito, anche se la promozione sul campo lo esentava dai lavori pesanti, ma solo gli imponeva la guardia.
Antipatro smaniava dal dolore. Soprattutto si sentiva impotente perché non riusciva a comunicare la sua urgente necessità: tirare fuori dal collo la freccia. Stava svenendo quando pensò di farlo da solo. Le forze vennero meno, ma la manovra causò la rottura della freccia. Il sangue cominciò a sgorgare più velocemente, e Aristonimo temette che il fratello potesse morire dissanguato. Provvide subito subito a tamponare la ferita con la coperta. Vi gettò sopra del vino che aveva in una borraccia di pelle al fianco. Passò un breve tempo infinito, ma il sangue smise di uscire.
A Menesteo, servo fedele, Aristonimo impose di prendere la guida del carro. Egli salì su un cavallo e fece assieme a un altro servo da guardia al cammino. Subito si prese la strada per il Monte degli Sparvieri. La strada era larga e la terra quasi sabbiosa, così non vi furono scosse ferali. Antipatro si era assopito, o meglio, era svenuto per la perdita del sangue, ma il respiro, seppure pensante, era eguale. All’ora sesta, già il carro era verso il declivio che portava a Epizepheri. Mancava poco all’ora ottava quando si superarono le mura di Locri. La casa di Antipatro era vicino al teatro e dal monte fu facilmente raggiunta. Arrivato, Aristonimo lanciò una voce perché la servitù uscisse. Sentì anche Clitennestra, la moglie di Antipatro e, alla vista dello sposo insanguinato sul carro, pensò al peggio. Subito si mise a gridare la sua sventura, ricordare il valore del marito, che piangeva come fosse morto. Era lontano il tempo i cui a Locri non si piangevano i morti. Ora il bene della famiglia superava quello della polis. La morte del capofamiglia era una sventura insopportabile che neppure la presenza di figli poteva lenire, soprattutto quando questi non erano in condizione di proseguire, perché troppo giovani, le vicende della famiglia. Antipatro aveva due figli maschi, che in quel momento erano nei suoi fondi a seguire l’andamento dei campi. La mietitura del grano non era vicina, ma le fave già secche andavano pestate. Le vigne curate. Gli animali munti e i vitelli portati al pascolo. Incombenze non difficili e che spettava ai servi fare, ma sotto lo sguardo vigile del padrone.

Foto: centodieci.it


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